Dopo la strage di via d’Amelio non fu Cosa nostra a fare sparire l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Ed estranei alla mafia erano anche i soggetti che idearono il piano di morte per il giudice, assassinato il 19 luglio del 1992. Lo scrivono i giudici di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza del processo per il depistaggio delle indagini. Il 12 luglio del 2022 il Tribunale aveva dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Borsellino e a cinque agenti della scorta. Assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo: la caduta dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. Oggi, a distanza di dieci mesi, sono state depositate in cancelleria le motivazioni, lunghe quasi 1.434 pagine.

La ritrosia dei testimoni – Il tribunale sottolinea che il processo “si colloca a distanza di circa 30 anni dalla strage di via D’Amelio e sconta dei limiti strutturali non oltrepassabili poiché più ci si allontana dai fatti e più è difficile recuperare il tempo perduto”. I giudici riconoscono come la strage di Via D’Amelio ponga “un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata. Il collegio ritiene che il diritto alla verità possa definirsi un fondamentale diritto della persona umana nell’ambito del quale si fondono sia la prospettiva individuale che quella collettiva”. Anche per questo motivo, il tribunale mette nero su bianco critiche aspre ad alcuni testimoni: “Non può in alcun modo essere sottaciuta e merita, anzi, di essere ben sottolineata, l’obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti”. A chi si riferiscono i giudici? “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni, soprattutto componenti del Gruppo Falcone e Borsellino della Polizia di Stato e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico e insoddisfacente il riscontro incrociato”.

“Ecco chi ha mentito”- Secondo i giudici che l’hanno celebrato nel processo sul depistaggio di Via D’Amelio si respirava “un clima di diffusa omertà istituzionale“. Per quanto concerne i poliziotti che secondo i magistrati “hanno reso dichiarazioni insincere”, si tratta di Maurizio Zerilli, “con i suoi 121 non ricordo” in aula, di Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco, definito “reticente”, e Giuseppe Di Gangi, che avrebbe reso dichiarazioni “insincere”. Secondo i giudici, poi, il falso pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue dichiarazioni ha depistato le prime indagini sulla strage, “è un mentitore di professione: è un soggetto che mente dal 1994 e che ha deliberatamente deciso, a distanza di quasi trent’anni, di continuare ad offrire ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false. Anche nell’odierno procedimento ha certamente prospettato una ricostruzione dei fatti che non può coincidere con la realtà, soprattutto nella misura in cui ha attribuito in toto ad Arnaldo La Barbera in primis e ai suoi uomini poi, la paternità di tutta una serie dichiarazioni accusatorie che altro non potevano essere se non il frutto dei margini di autonomia – certamente ampi – che, per scelta o più probabilmente per necessità, gli vennero lasciati”. Per il collegio “più che rappresentare una prova scivolosa da maneggiare con cautela, Scarantino rappresenta una prova insidiosa dalla quale è necessario prescindere a meno di non rimanere ostaggio delle altalene dichiarative dell’ex falso collaboratore. Proprio alla luce della sua costante ambiguità dichiarativa, risulta praticamente impossibile discernere quali siano le singole circostanze effettivamente suggerite e quali siano frutto della personale iniziativa, con la conseguenza che non è possibile attribuire con sicurezza una condotta ad un soggetto piuttosto che ad un altro”.

“Agenda rossa non fu rubata dai boss” – Anche per questo motivo non è stato possibile ricostruire come maturò il depistaggio. Che scatta subito dopo la strage, quando qualcuno recupera la borsa del giudice Borsellino, cerca la sua agenda rossa e la porta via, tra i rottami delle automobili, le fiamme e i cadaveri delle vittime ancora a terra. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra“, scrivono i giudici nelle motivazioni, visionate dall’agenzia Adnkronos. “Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze – proseguono – In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”.

“Convergenza d’interessi tra mafia e altri gruppi di potere”- E dunque a sottrarre l’agenda fu sicuramente un uomo delle istituzioni. “In secondo luogo – continuano le motivazioni – un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi ma nel 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via d’Amelio”. Per i giudici di Caltanissetta, “movente della strage e finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connesse”. Nelle quasi 1.500 pagine delle motivazioni, i giudici parlano poi “della presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio“. Il tribunale scrive di “plurimi elementi che inducono a ritenere prospettabile un ruolo, tanto nella fase ideativa, quando nella esecutiva, svolto da soggetti estranei a Cosa nostra nella strage, vero e proprio punto di svolta nella realizzazione della strategia stragista dei primi anni Novanta”. E ancora, proseguono, “anche senza volere ritenere scontato che si possa parlare di accelerazione, più o meno repentina, non è aleatorio sostenere che la tempistica della strage di via D’Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali e ciò nella logica di frenare l’attività di reazione delle istituzioni”. E a questo proposito, insistono, parlando “di convergenze di interessi nella ideazione della strage di via D’Amelio tra Cosa nostra ed ambienti esterni ad essa“.

L’uomo esterno alla mafia per la preparazione dell’autobomba – Ma non solo. I giudici scrivono anche che “oltre ai tempi della strage, oggettivamente distonici rispetto all’interesse di Cosa nostra, vi sono ulteriori elementi che inducono a ritenere asfittica la tesi che si arresta al riconoscimento della paternità mafiosa dell’attentato di via D’Amelio e della sua riconducibilità alla strategia stragista deliberata da Cosa nostra, prima di tutto, come ‘rispostà all’esito del maxiprocesso e ‘resa dei contì con i suoi nemici storici”. E ancora sottolineano che “l’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. A dimostrare l’ingerenza di terzi soggetti sarebbero “l’anomala tempistica della strage di Via D’Amelio (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”. L’uomo che il pentito non aveva mai visto, non faceva parte di Cosa nostra. “La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra – si legge nelle motivazioni – si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”. Se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, svelando il depistaggio, non ci sarebbe stato alcun processo. I giudici scrivono che “tale circostanza deve fare riflettere sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia. In altri termini, si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che, in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà”.

“Il pentito Di Matteo conosce fatti su uomini delle istituzioni coinvolti nelle stragi” – E a proposito di collaboratori di giustizia, i giudici scrivono anche di avere un’idea precisa sul patrimonio di conoscenza di Mario Santo Di Matteo, il padre del piccolo Giuseppe. “Si ritiene che Di Matteo Mario Santo sia a conoscenza di altri particolari riguardanti le stragi, che questi particolari riguardano soggetti istituzionali, e che egli non abbia inteso e tuttora non intenda riferire per un timore evidentemente ancora attuale per la vita propria e dei suoi familiari”, si legge nella motivazione. “È evidente come Mario Santo Di Matteo e Francesca Castellese non riferiscano sul tema i fatti di cui sono a conoscenza e la circostanza che non lo facciano da venticinque anni, lungi dall’essere conferma di ciò che essi sostengono, prova solo la loro pervicacia nell’omissione di riferire“, si legge ancora. “E tale dato non solo è innegabile ma è potenziato dal fatto che si è di fronte ad una costante negazione assoluta senza spiegazioni, tanto è vero che, a fronte delle contestazioni del pm, Mario Santo Di Matteo non risponde – sviando il discorso sugli altri argomenti di taglio emozionale legati alla deprivazione genitoriale derivante dalla scomparsa del figlio – limitandosi a negare e senza fornire alcuna ricostruzione alternativa del significato dell’intercettazione”.

“Da La Barbera abusi e forzature ma non era vicino alla mafia” – A proposito del depistaggio, il tribunale sottolinea che i servizi segreti parteciparono “impropriamente” alle indagini sulla strage di via D’Amelio. “Dell’impropria partecipazione del Sisde alle indagini non era al corrente solo il procuratore Tinebra (deceduto nel 2017 ndr) ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. E’ legittimo ritenere che il capo della Polizia e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere una iniziativa così ‘extra-ordinem‘ senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca”. I giudici parlano di una “irrituale collaborazione“. I giudici poi si soffermano sulla presunta presenza di Bruno Contrada in via d’Amelio, poi smentita. “Ci si chiede perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione? A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze, si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage ( che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) di Via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza”, scrivono nelle motivazioni. “Come ben evidenziato da talune parti civili Bruno Contrada era ‘il diversivo giusto’: un soggetto -nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al Dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa – da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione”. Pesante il giudizio su Arnaldo La Barbera, l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo che guidava le indagini. Non vi è dubbio alcuno – si legge nelle motivazioni – che fu interprete di un modo di svolgere le indagini di polizia giudiziaria in contrasto – non solo oggi ma anche nel tempo – prima ancora che con la legge, con gli stessi dettami costituzionali“. La Barbera, secondo i giudici, “pose consapevolmente in essere una lunga serie di forzature, abusi e condotte certamente dotate di rilevanza penale”. Poi però i magistrati specificano che “gli elementi probatori analizzati non consentono di ritenere che La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta”. Per i giudici La Barbera era “anche egli una anello intermedio della catena e sarebbe stato importante potere risalire quella catena per potere apprendere appieno scopi e obiettivi dell’attività di cui si discute”.

“Il percorso della borsa di Borsellino ha dell’incredibile” – Nelle motivazioni un capitolo a parte è dedicato al tragitto che affronta la borsa di pelle di Borsellino, che custodiva l’agenda rossa, dopo la strage. “Quel che è certo è che la gestione della borsa di Paolo Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile. Nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno ha proceduto al suo sequestro e, nonostante da subito vi fosse stato un evidente interesse mediatico scaturito”. Il collegio riepiloga tutta la vicenda gettando ombre sulla condotta di diversi esponenti delle istituzioni come il carabiniere Giovanni Arcangioli, visto allontanarsi con la valigetta e comunque prosciolto da ogni accusa e sottolineando che “appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda dal giudice Giuseppe Ayala pur comprendendosene lo stato emotivo profondamente alterato”. Ad avviso del collegio “solo (se e) quando si potrà stabilire al fondo, e con chiarezza, il ruolo di Giovanni Arcangioli e il ruolo di Arnaldo La Barbera (che riconsegnò la borsa del giudice alla famiglia dopo mesi ndr)- soprattutto sotto il profilo del come si coniugano tra loro i due interventi sulla borsa – si potrà fare nuova luce sul tema della sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”. Secondo i magistrati “sia che l’agenda sia sparita a pochi minuti dall’esplosione, sia che l’agenda sia sparita in un torno di tempo (immediatamente) successivo, tenere un reperto così importante per cinque mesi a decantare su un divano ha avuto certamente un’efficienza causale nello sviamento investigativo delle prime indagini, facendo venir meno l’attenzione sulla borsa e sul suo contenuto”.

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