La prescrizione era inevitabile dopo i ritardi che l’inchiesta ha subito nelle fasi iniziali quando la Procura di Reggio Calabria, nel 2010, non ha fatto trascrivere le intercettazioni registrate dalla guardia di finanza nell’ambito di un’altra inchiesta. E questo a danno sia delle parti offese sia a danno degli stessi imputati che, se innocenti, avrebbero potuto dimostrare la loro estraneità oltre ogni ragionevole dubbio. È arrivata oggi la sentenza d’appello del processo “Mala Sanitas nato da un’inchiesta coordinata dalla Procura di Reggio Calabria e condotta dalla guardia di finanza su ginecologi, anestesisti e ostetriche dell’ospedale Bianchi-Melacrino-Morelli.

Delle nove condanne decise dal Tribunale in primo grado nel luglio 2019, la Corte d’Appello ne ha confermate solo una, quella dell’anestesista Luigi Grasso al quale sono stati inflitti 2 anni e 3 mesi di reclusione. Per il resto ci sono state due condanne con pena ridotta, un’assoluzione e sei prescrizioni. Una delle due condanne è quella rimediata dall’ex primario del reparto di Ostetricia e ginecologia Pasquale Vadalà. In primo grado gli erano stati inflitti 4 anni e 9 mesi mentre adesso è stato condannato a 3 anni di carcere per falso. In sostanza, secondo l’accusa, avrebbe manipolato la cartella clinica di una partoriente il cui neonato è deceduto dopo poche ore di vita a causa di una meningite fulminante e sepsi precoce. Per lo stesso reato è stato condannato a 2 anni e 4 mesi il ginecologo Alessandro Tripodi che, in primo grado, aveva preso 4 anni e 8 mesi.

Tutti gli altri reati contestati a Tripodi, difeso dall’avvocato Giovanni De Stefano, sono andati prescritti tranne un’accusa di falso per la quale, invece, il ginecologo è stato assolto così come l’ostetrica Giuseppina Strati, assistita dall’avvocato Francesco Calabrese, che in primo in primo grado era stata condanna a 3 anni. Sempre per lo stesso reato di falso è stata assolta la ginecologa Daniela Manunzio che, in primo grado, era stata condannata a 6 anni e 2 mesi di reclusione. Tutti gli altri reati contestati alla Manunzio, invece, sono stati prescritti.

La scure della prescrizione, infine, ha impedito alla Corte d’Appello di giudicare gli altri sei imputati: la neonatologa Maria Concetta Maio e i ginecologi Antonella Musella, Filippo Saccà, Massimo Sorace e Marcello Tripodi. Per quest’ultimo la prescrizione era stata già dichiarata dai giudici di primo grado.

L’inchiesta era partita dal riascolto di alcune intercettazioni del 2010 che la Dda aveva disposto nei confronti del ginecologo Alessandro Tripodi, imparentato con l’avvocato Giorgio De Stefano, ritenuto dalla Procura il “consigliori” di una delle più potenti famiglie mafiose di Reggio Calabria. Non essendo emerso nulla di interessante circa il collegamento tra il professionista e la ‘ndrangheta, quelle intercettazioni furono accantonate dalla Procura all’epoca guidata dal procuratore Giuseppe Pignatone. Quell’inchiesta, allora coordinata dal pm Beatrice Ronchi (oggi in servizio a Bologna), rimase negli archivi della Procura fino al 2014 quando il colonnello Domenico Napolitano informò il pm Di Palma dei numerosi episodi di presunta malasanità che si sarebbero verificati all’interno del reparto di Ginecologia e Ostetricia degli ospedali Riuniti.

Concluse le indagini, per i pm ci sarebbero stati diversi errori medici, omissioni e falsi. In sostanza tutta una serie di reati tra cui la manipolazione delle cartelle cliniche relative alle pazienti (che si sottoponevano a interventi ginecologici) e ai neonati, al fine di occultare le responsabilità dell’équipe medica che aveva preso parte ai singoli interventi. Se così è stato, un processo penale non lo potrà mai stabilire. Gli arresti scattarono nel 2016, sei anni dopo i presunti casi di malasanità. Quando la prescrizione stava già provocando un danno alle parti offese e agli stessi imputati.

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