Erano i primi mesi del 2018 e l’attuale ministro dell’Interno Matteo Piantedosi era prefetto a Bologna. Onde evitare di fare “il prefetto cattivo” e imporre l’apertura di nuovi Centri di accoglienza straordinaria (Cas), Piantedosi chiedeva che in tutti i comuni della provincia venisse aperto almeno un progetto Sprar (oggi Sai), il sistema di accoglienza ordinaria organizzata in piccoli progetti per lo più gestiti dalle amministrazioni comunali attraverso il terzo settore. Insomma, chiedeva che ognuno facesse la sua parte perché l’hub di Bologna era già al doppio della capienza e si voleva evitare di stipare decine o centinaia di migranti in altri Cas. Di lì a poco Piantedosi sarebbe approdato al Viminale con l’allora ministro Matteo Salvini, i cui decreti sicurezza andarono esattamente nella direzione opposta, tagliando il contributo procapite per l’accoglienza dei migranti e rendendo più complicato per i comuni avviare i progetti in collaborazione col terzo settore. Perché in Italia, di questo parliamo, l’accoglienza ordinaria dei richiedenti asilo e dei rifugiati rimane su base volontaria. E per quanto il governo di Giorgia Meloni sembri ora intenzionato a spingere l’accoglienza diffusa, delle due, l’una: o si obbligano i comuni a erogare l’accoglienza come servizio, o si continuano a imporre strutture prefettizie che non hanno mai dato garanzie in termini di condizioni né di coesione sociale.

Accoglienza diffusa, tra il dire e il fare Con 28 mila sbarchi dall’inizio dell’anno rispetto ai 6 mila del primo trimestre 2022, i posti occupati nell’accoglienza sono oggi 112 mila su 120 mila circa: è di nuovo emergenza. E riparte il solito copione: i prefetti chiedono disponibilità di immobili ai comuni che, spaventati, scrivono al governo che annuncia cabine di regia, come quella che dovrebbe uscire oggi dal vertice a Palazzo Chigi che sul tavolo ha una bozza di una decina di punti, dal potenziamento della rete dei centri di accoglienza al solito snellimento delle procedure per esaminare le richieste d’asilo e per i rimpatri. Anche questo è un copione già visto. Una qualche novità è rappresentata dall’obiettivo dichiarato del Viminale di accogliere piccoli numeri su tutto il territorio nazionale ed evitare grandi e problematiche concentrazioni. Ma i sindaci, come ha fatto quello di Modena, Giancarlo Muzzarelli, già avvertono il governo che non è possibile dare risposte adeguate alle richieste avanzate dalle prefetture alle amministrazioni locali. Sostengono insomma che non è rimettendosi alla disperata ricerca di alberghi sfitti, colonie, ex case vacanze o appartamenti di privati da prendere in locazione che si può risolvere l’emergenza. I sindaci chiedono, una volta per tutte, soluzioni strutturali. Intanto più di 7 migranti su 10 sono nei Cas, che nel 2005 l’Italia si è impegnata a tenere solo come strutture di emergenza e invece sono la norma perché dalla logica dell’emergenza non siamo mai stati capaci di uscire.

L’accoglienza ordinaria in Italia Oggi l’accoglienza diffusa della rete Sai conta 934 progetti (679 ordinari, 214 per minori non accompagnati, 41 per persone con disagio mentale o disabilità) affidati a 793 enti locali titolari di progetto in 1.800 comuni per un totale di 43.923 posti finanziati (36.821 ordinari, 6.299 per minori non accompagnati, 803 per persone con disagio mentale o disabilità). Le amministrazioni comunali titolari di progetti sono 699. Il numero va inserito in quello dei comuni italiani, che sono 7.900, tenendo conto però che il 70% di questi ha meno di 5mila abitanti. I posti in accoglienza ordinaria sono più al Sud, con regioni come Sicilia (5.128), Puglia (3.130) e Calabria (2.988) dove superano anche quelli dell’accoglienza straordinaria. Mentre al Nord prevalgono i Cas, con regioni dove il modello Sai è marginale, come in Friuli Venezia Giulia: 235 posti a fronte di 3.911 nei Cas. Per un modello che ha più di vent’anni, nato nel 2002 col nome di Sprar e che dovrebbe rappresentare la norma e quindi essere preminente rispetto a quello straordinario, è evidente che qualcosa non ha funzionato. Più banalmente, sostengono i più nel terzo settore, “si è voluto mantenerlo in uno stato residuale, si è voluto mantenere lo stato di emergenza”. Eppure i risultati sono tutti dalla parte dell’accoglienza diffusa, che ha un basso impatto sulla comunità circostante e consente di lavorare sull’integrazione e l’accesso diretto ai servizi da parte di richiedenti e rifugiati, che da subito interagiscono col tessuto che li accoglie, “garantendo ottimi risultati sul piano della coesione sociale“, sostengono realtà come Arci e Caritas, tra le altre.

Dalla volontarietà all’erogazione di un servizio alla persona Il rischio, ancora una volta, è quello di finire nel cortocircuito dei prefetti che chiedono disponibilità ai comuni senza trovare sufficiente risposta o trovando soluzioni inadeguate dal punto di vista del dialogo con tutti gli altri servizi di cui l’accoglienza necessità, dalle scuole al welfare, soprattutto di fronte ai numeri dei minori non accompagnati che sono in aumento (2.500 da gennaio) e per i quali non ci sono posti sufficienti già da ora. A questa logica c’è chi da tempo oppone una soluzione radicale: estendere a tutti i comuni la rete Sai, obbligatoriamente. A partire da un principio: “L’accoglienza non è una concessione, ma un diritto della persona previsto da una direttiva europea del 2003 e dunque un dovere dello Stato”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà – Ufficio rifugiati onlus e membro Asgi. Secondo Schiavone, l’accoglienza di chi ne ha diritto deve rientrare nelle funzioni amministrative che la nostra Costituzione affida ai comuni. “Allo Stato competa il finanziamento, la definizione degli standard, e magari l’intervento diretto nei soli casi in cui i numeri siano in rapido aumento”, aggiunge, sostenendo che “l’accoglienza va sottratta alla libera volontà del singolo amministratore o del cambio politico e va ricondotta al campo dei servizi socio assistenziali: i servizi alla persona sono svolti dai comuni, perché questo no?”

Una soluzione divisiva, anche nel Pd di Schlein Lo scorso agosto, in una tavola rotonda sull’accoglienza alla quale hanno partecipato anche Arci e Caritas oltre allo stesso Schiavone, era presente quella che di lì a poco sarebbe diventata la nuova segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein. “Parlo da persona che si è battuta per ribattere a Orban e a Paesi cui fa comodo che il sistema non cambi e che l’Ue rimanga quella dove 6 paesi su 27 svolgono l’80% dell’accoglienza”, ha detto nel suo intervento in cui ripartiva dalle parole di Schiavone. “Domando: con che faccia pretendiamo che in Ue ognuno faccia la sua parte sull’accoglienza se poi in casa nostra ci affidiamo alla stessa volontarietà che permette a singole amministrazioni di dire no anche solo a 10 minori non accompagnati?”. Ribadendo che l’accoglienza diffusa va sostenuta perché non spaventi più, ha aggiunto: “Mi auguro si pongano le basi per una proposta solida che non potrà mancare nei programmi politici“. Oggi è segretaria del Pd. Ma la sua posizione non è la sola nel partito. Il dem Matteo Biffoni è sindaco di Prato e delegato per l’Immigrazione nell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci), alla cui Conferenza dei presidenti, segretari e direttori delle Anci regionali, oggi ad Ancona, ha rilanciato l’emergenza spiegando che il sistema “rischia il collasso, oggi come dieci anni fa, e i posti per i migranti non si trovano”. Ma pur promuovendo la bontà dell’accoglienza diffusa e l’estensione della rete Sai, Biffoni non sostiene la strada dell’obbligatorietà: “L’accoglienza va fatta con convinzione. E’ una scelta politica starne dentro. Quello che conta è la premialità dei comuni: soldi in più, assunzioni in più, sgravi fiscali per i cittadini”, ha spiegato tempo fa a ilfattoquotidiano.it. E ancora: “I sindaci sono persone pragmatiche, anche tanti comuni di centrodestra ormai dicono “preferisco il Sai”. Ma hanno bisogno dei giusti incentivi”.

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