Non siamo un Paese in via di sviluppo, ma in Italia 336mila minorenni tra i 7 e i 15 anni hanno già vissuto esperienze di lavoro. Bambini e preadolescenti che servono in tavola o stanno in cucina, che vendono nei negozi, che zappano, che piegano la schiena in cantiere, ma non solo: una parte di loro lavora anche su Internet. A lanciare l’allarme è l’ong Save the Children, che insieme alla Fondazione Di Vittorio lancia un nuovo Sos a dieci anni dalla prima indagine su questo fenomeno. Secondo i ricercatori è “in corso una complessiva sottostima sociale del fenomeno del lavoro minorile”. La nuova edizione dell’indagine “Non è un gioco”, presentata martedì mattina a Roma alla presenza della ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone, è strutturata in modo simile alla precedente (svolta nel 2013 e 2014) in modo da verificare l’evoluzione del quadro nel corso degli ultimi dieci anni, sia dal punto di vista dell’incidenza, che del tipo di esperienza svolta da parte dei ragazzi e delle ragazze.

La ricerca è stata condotta su un campione probabilistico di 2.080 studenti. Ne esce un quadro a tinte fosche: nel 2013 i minorenni tra i 7 e i 15 anni che avevano sperimentato una forma di lavoro minorile nel Paese erano circa 340mila, cioè quasi il 7% della popolazione di riferimento. Oggi la situazione in sostanza è identica, e questa è la prima brutta notizia. La seconda è che tra i 14-15enni che lavorano, il 27,8% (circa 58.000 minorenni) ha svolto mansioni particolarmente dannose per il proprio sviluppo educativo e benessere psicofisico, perché considerati da loro stessi pericolosi oppure perché svolti in orari notturni, o ancora svolti in maniera continuativa durante il periodo scolastico. I settori più interessati dal fenomeno sono la ristorazione (25,9%) e la vendita al dettaglio in negozi e attività commerciali (16,2%). Seguono le attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), le attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%). Quest’ultimo dato non tiene conto dei piccoli lavori domestici svolti nel quadro della condivisione delle responsabilità familiari. Emergono anche nuove forme di lavoro online (5,7%). Stiamo parlando di attività non sporadiche, ma entrate a far parte delle esistenze di questi ragazzi: più della metà di loro lavora tutti i giorni o qualche volta a settimana, circa uno su due lavora più di quattro ore al giorno.

I casi emergono non soltanto al Sud, ma anche nel Nord Italia: “A Treviso come a Prato, il lavoro minorile non costituisce necessariamente un’alternativa alla frequenza scolastica; spesso, anzi, si va ad aggiungere a essa nella forma del lavoro estivo – soprattutto a Treviso – o in quella – maggiormente diffusa a Prato – della collaborazione all’accudimento dei membri della famiglia e alle faccende domestiche”, spiegano i ricercatori. Una richiesta che, secondo alcuni interlocutori, è particolarmente presente in famiglie a basso reddito e con background migratorio, e che sembra essere prevalentemente rivolta alle ragazze insieme all’investimento nell’istruzione e nel successo scolastico. Proprio a Treviso, ad esempio, dietro un’apparente marginalità del fenomeno, l’approfondimento tramite focus group ha lasciato emergere una certa significatività di casi di minori impegnati in lavori agricoli o attività tessili presso aziende di stampo familiare, con particolare interessamento del periodo estivo. Il tutto chiaramente va letto nell’ottica del contesto di provenienza: ovunque, maggiormente esposti sono bambine, bambini e adolescenti in transito sul territorio e che nessuno intercetta, né la scuola, né l’ambito dei servizi e dell’educazione non formale. Ancora più critica la situazione di chi, tra questi, non possiede competenze linguistiche adeguate in italiano e si espone quindi al rischio di inserimento in attività ad alto rischio di sfruttamento.

Articolo Successivo

“Follia tagliare il Reddito con 100 miliardi di evasione. E serve il salario minimo”. Landini annuncia la mobilitazione con Cisl e Uil

next