Nonostante le buone notizie sullo strato dell’ozono e il suo buco, purtroppo non è tutto oro quello che luccica. Anzi. Un nuovo studio dimostra che le emissioni globali di diverse sostanze chimiche che distruggono l’ozono sono in aumento. La ricerca, pubblicata oggi su Nature Geoscience e condotta dall’Università di Bristol, GB e dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), ha lanciato l’allarme sull’aumento delle emissioni di alcuni tipi di clorofluorocarburi o CFC, utilizzati – per quanto possa sembrare curioso – per creare alternative rispettose dell’ozono ai CFC stessi. L’autore principale dello studio, il dottor Luke Western, ricercatore presso l’Università di Bristol e ricercatore presso il Global Monitoring Laboratory (GML) del NOAA, ha dichiarato: “Le emissioni di CFC legate ad applicazioni assai diffuse, grazie al protocollo di Montreal e ai suoi divieti di utilizzo, sono scese a livelli così bassi che le emissioni di CFC da fonti precedentemente minori sono diventate più importanti dal punto di vista della ricerca e del monitoraggio ambientale”.

È il caso appunto dei CFC utilizzati per la produzione delle alternative rispettose dell’ozono, che non sono stati banditi dal protocollo di Montreal. Secondo i ricercatori, le emissioni di questi CFC attualmente non minacciano in modo significativo il recupero dello strato di ozono e la chiusura del buco. Ma il loro aumento è comunque preoccupante in prospettiva e vi è da aggiungere che sono potenti gas serra, che influenzano in ogni caso il clima. Lo studio internazionale apparso su Nature Geoscience è stato condotto da un team di scienziati provenienti da Regno Unito, Stati Uniti, Svizzera, Australia e Germania.

I CFC sono sostanze chimiche note per distruggere lo strato protettivo di ozono della Terra. Una volta ampiamente utilizzati nella produzione di centinaia di prodotti tra cui spray, deodoranti, etc. e come agenti espandenti per schiume e materiali di imballaggio, solventi e nella refrigerazione, il loro uso per queste applicazioni è stata vietata dal Protocollo di Montreal nel 2010. Tuttavia, il trattato internazionale non ha vietato la produzione di CFC nel caso fosse servente alla produzione di alcune altre sostanze chimiche, inclusi gli idrofluorocarburi o HFC, che sono stati sviluppati come sostituti di seconda generazione dei CFC.

Lo studio si è concentrato su cinque CFC – CFC-13, CFC-112a, CFC-113a, CFC-114a e CFC-115 – che hanno una durata atmosferica compresa tra 52 e 640 anni. In questo studio, il team ha utilizzato le misurazioni dell’Advanced Global Atmospheric Gases Experiment (AGAGE), in cui l’Università di Bristol svolge un ruolo fondamentale, così come altre effettuate dal Forschungszentrum Jülich, in Germania, dall’Università dell’East Anglia e dal NOAA negli Stati Uniti. Queste sono state combinate con un modello di analisi atmosferica per dimostrare che le emissioni di questi CFC sono aumentate dal 2010. I ricercatori hanno stabilito che per tre dei CFC studiati – CFC-113a, CFC-114a e CFC-115 – l’aumento delle emissioni potrebbe essere in parte dovuto al loro utilizzo nella produzione di due HFC utilizzati principalmente nella refrigerazione e nel condizionamento dell’aria. I fattori alla base dell’aumento delle emissioni degli altri due CFC, CFC-13 e CFC-112a, sono meno certi. “Dato il continuo aumento di queste sostanze chimiche nell’atmosfera, forse è il momento di pensare ad affinare un po’ di più il protocollo di Montreal”, ha affermato il coautore dello studio, il dottor Johannes Laube, dell’Istituto di ricerca sull’energia e il clima (IEK) del Forschungszentrum Jülich . Secondo i ricercatori, se le emissioni di questi cinque CFC continuassero ad aumentare, il loro impatto potrebbe annullare alcuni dei benefici ottenuti con il Protocollo di Montreal. Lo studio ha rilevato che queste emissioni potrebbero essere ridotte o evitate migliorando i processi di produzione degli HFC.

Gianmarco Pondrano Altavilla

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