Dopo Teheran, Damasco: secondo quanto ha riferito la tv di Stato saudita Al Ekhbariya, citando fonti del ministero degli Esteri, la monarchia degli al-Saud è in procinto di ristabilire relazioni diplomatiche con la Siria di Bashar Al Assad, a pochi giorni dalla notizia di un analogo riavvicinamento di Riyad all’Iran, mediato in ultima istanza dalla Cina. Una mossa che era tanto attesa nell’ultima settimana – dopo la notizia del riavvicinamento tra Arabia Saudita ed Iran, alleato della Siria – quanto impensabile fino ad un paio di anni fa, quando, con Trump alla Casa Bianca, all’orizzonte per Riyad sembrava esserci il completamento della normalizzazione con Israele e un ulteriore irrigidimento nei confronti della Repubblica islamica e dei suoi partner.

Le delegazioni saudite e siriane, secondo quanto trapelato, negli ultimi giorni hanno raggiunto un’intesa sostanziale per la riapertura delle sedi diplomatiche verso la fine del mese di Ramadan, che cadrà il 20 aprile, in vista poi della possibile riammissione di Damasco nella Lega Araba, da cui era stata esclusa nel 2012 per via della brutale repressione delle proteste anti-governative, il cui prossimo meeting avrà luogo proprio nel Regno a maggio. Lo scorso gennaio, Damasco aveva ripreso le importazioni dall’Arabia saudita, uno dei primi Paesi arabi a schierarsi contro il regime di Assad promuovendone l’esclusione dalla Lega araba e il più attivo nel finanziare una serie di gruppi ribelli nella prima fase del conflitto.

Un altro episodio si aggiunge quindi al graduale riassetto nella regione, all’interno del quale è forse avventato e prematuro segnalare un netto riposizionamento dei sauditi, ma che certamente segnala il crescente protagonismo regionale della Russia che nei colloqui siro-sauditi avrebbe assunto il ruolo di mediatore, simile a quello di Pechino tra Riyad e Teheran. Inoltre, si registra la volontà dei sauditi di reagire al netto cambio di postura da parte dell’amministrazione americana guidata da Joe Biden che, all’indomani della sua elezione, aveva interrotto le forniture di armi decise dal suo predecessore, definito quello saudita uno “Stato paria” e incalzato il suo erede al trono, Mohammad bin Salman, affinché chiarisse le sue responsabilità rispetto all’efferato assassinio del giornalista Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita di Istanbul, nel 2018.

Va ricordato, in relazione al disimpegno americano dalla regione, che nelle stesse ore dell’uscita della notizia del riavvicinamento tra Riyad e Damasco funzionari del Pentagono riferivano al Wall Street Journal che Washington il prossimo aprile recapiterà a una serie di Paesi della regione aerei da attacco Fairchild Republic A-10 Thunderbolt, con l’intenzione di impiegare modelli più all’avanguardia nel Pacifico: gli A-10, infatti, sono dei velivoli largamente superati, i primi modelli risalgono agli anni 70.

“Il riavvicinamento tra sauditi e siriani riflette un più generale trend in atto tra i Paesi arabi che stanno accogliendo nuovamente Bashar al-Assad nei loro consessi, normalizzando le relazioni con Damasco con modalità promosse dagli Emirati Arabi Uniti“, spiega a Ilfattoquotidiano.it il professor Colin Philip Clarke, Senior Research Fellow del Soufan Group. Va infatti segnalato che pochi giorni fa, più o meno nelle stesse ore dell’incontro finale tra sauditi e iraniani, Bashar al-Assad e sua moglie Asma erano stati ricevuti ad Abu Dhabi, con cui erano già state ristabilite relazioni diplomatiche nel dicembre 2018 dopo sei anni di gelo. Inoltre, un mese fa aveva già coinvolto proprio Riyad nell’invio di aiuti verso le zone della Siria colpite dal terremoto dello scorso 6 febbraio.

Dopo il cambio di rotta di Biden, Riyad aveva già compiuto alcune mosse in direzione contraria a quelle auspicate da Washington, come quella di tagliare la produzione di greggio generando un aumento dei prezzi che, col conflitto ucraino già iniziato, aveva favorito la Russia. “Considero personalmente queste mosse dei sauditi come un messaggio a Washington, un modo per dimostrare di avere una propria agenda e di non aver più bisogno di lei – continua Clarke – Ed è anche per questo motivo che il ruolo cinese nel reapproachment irano-saudita viene considerato un punto critico”.

“Gli Stati autoritari e quelli che esportano petrolio hanno più cose in comune rispetto alle democrazie occidentali, percepite come ipocrite per quel che riguarda il rispetto della sovranità e l’utilizzo delle sanzioni“, commenta sulle colonne del Wall Street Journal Karen Young, del Center on Global Energy Policy della Columbia University. “Il trend generale in Medio Oriente – aggiunge – è quello di un diffuso consenso sul principio della non interferenza negli affari domestici altrui”. E alla luce di ciò è possibile inquadrare il comportamento di un Mohammad Bin Salman indispettito dalla postura di Biden.

L’avvicinamento tra Riyad e Mosca era iniziato già nel 2018, durante la presidenza americana di un Trump molto meno ostile alla Russia rispetto al suo successore: è del 29 agosto di quell’anno la conferenza stampa congiunta tra il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, e del suo ex omologo saudita, Adel Al Jubeir, nella quale si era giunti a un’intesa di massima sulla collaborazione per una soluzione politica alla guerra civile siriana. Ed è sempre quell’incontro ad aver gettato le basi per l’inizio dei colloqui informali tra Damasco e Riyad che avevano iniziato a discutere di riconciliazione con la mediazione di Abu Dhabi, puntando anzitutto sulle comuni preoccupazioni relative in particolare alla minaccia di natura politica posta in entrambi i Paesi dalla Fratellanza musulmana.

Nel maggio del 2021, pochi mesi dopo l’elezione di Biden alla Casa Bianca, era poi arrivato il primo incontro da dieci anni a quella parte tra le intelligence saudite e siriane, con la visita del capo dei servizi sauditi Khalid Bin Ali al Humaidan a Damasco. Proprio un alto funzionario dell’intelligence siriana, che secondo fonti diplomatiche saudite citate dalla Reuters risponderebbe al nome di Hussam Louqa, si è trattenuto per diversi giorni a Riyad nella scorsa settimana per discutere in particolare di contrasto al traffico di Captagon (anfetamine) al confine tra Siria e Giordania. Secondo quanto riporta il quotidiano kuwaitiano Al Jarida, anche Maher Al Assad, fratello di Bashar e capo della famigerata Quarta divisione corazzata dell’Esercito siriano, si è recato in Arabia Saudita per discutere di normalizzazione e del possibile rilascio di detenuti sauditi catturati come membri di gruppi jihadisti in Siria.

Se appare chiaro come il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Siria si leghi a doppio filo a quello tra la prima e l’Iran, meno chiari sono altri due aspetti connessi: il primo attiene alla effettiva e concreta tenuta di questi processi di riconciliazione. Su questo, il professor Clarke procede con cautela: “Molti cambiamenti sono in atto in Medio Oriente, ma un conto sono gli annunci e un altro sono gli sviluppi effettivi. È necessario attendere e vedere come e quali paesi effettivamente si adegueranno a questi nuovi accordi”. Siria e Arabia Saudita, circa 18 anni fa, avevano già mediato in via congiunta dopo la crisi avviata in Libano dall’assassinio dell’allora primo ministro Rafiq Hariri, sostenuto da Riyad, per poi ritrovarsi pochi anni dopo in una rinnovata situazione di ostilità, vista l’appartenenza a blocchi geopolitici opposti. Secondo quanto affermato da un deputato libanese di Hezbollah, Nawwaf Moussawi, il 26 agosto 2018, cioè tre giorni prima dell’incontro tra Lavrov e Jubeir, Bashar al-Assad aveva rispedito al mittente l’offerta di Mohammad Bin Salman di contribuire alla ricostruzione della Siria in cambio della rottura delle relazioni tra Damasco e il partito sciita.

Il secondo aspetto chiama in causa l’attesa possibilità che questo reapproachment tra Arabia Saudita e due Paesi del cosiddetto “Asse della Resistenza” stimoli lo sblocco di alcune situazioni di stallo politico o addirittura favorisca la risoluzione di conflitti nella regione. Se per quel che riguarda il conflitto in Yemen la speranza è che i colloqui in corso tra Riyad e ribelli Houthi vengano influenzati dall’intesa con Teheran, che come notato da alcuni osservatori “ha il potere di spingere verso una escalation, ma non necessariamente quello di spingere verso una de-escalation”, qualcuno si augura che il riavvicinamento tra Riyad e Damasco possa contribuire a produrre un qualche effetto sul vicino Libano, in stallo istituzionale dallo scorso novembre dopo la scadenza del mandato dell’ex presidente della Repubblica, Michel Aoun, che ha lasciato la carica vacante.

Segnali incoraggianti, in questo senso, erano arrivati un paio di settimane fa, dopo che il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva reso noto il proprio sostegno al candidato alla presidenza Sleiman Frangieh, a capo del Marada, un partito cristiano filo-siriano e storicamente ostile ai sauditi. I commenti arrivati da Riyad, a differenza del solito, erano stati vagamente possibilisti, non segnalando perlomeno una netta chiusura, e il quotidiano libanese Orient Today aveva riferito come una buona parte dei deputati sunniti nel Parlamento libanese – tradizionalmente influenzati dalla monarchia del Golfo – fosse disponibile ad appoggiare lo stesso Frangieh e in attesa di un “via libera” dal Regno. Un via libera che potrebbe fornire allo stesso Frangieh i numeri sufficienti per essere eletto. Non si tratta, tuttavia, di una dinamica del tutto lineare: un paio di giorni prima, il noto quotidiano saudita Okaz aveva pubblicato un duro articolo contro la nomina di Frangieh, corredato da una vignetta piuttosto lugubre in cui la faccia di quest’ultimo veniva sovrapposta a quella dello stesso Nasrallah.

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