La scorsa settimana si è concluso a New York l’incontro internazionale dell’Onu, che dopo vent’anni di trattative in bilico ha approvato un documento cruciale: il Trattato degli Oceani Profondi (High Seas Treaty). “Questo trattato può garantire la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina di oltre due terzi del nostro spazio oceanico che sostiene la vita”, ha spiegato Antonio Guterres, Segretario Generale dell’Onu.

Questo passo si compie a 40 anni di distanza dalla Convenzione sulla Legge del Mare (Convention on the Law of the Sea), nella quale erano stati istituiti gli oceani profondi come acque internazionali alle quali non si estendevano giurisdizioni nazionali per i diritti di pesca. Meno del 2% di queste acque era però protetto, lasciando queste zone ecologiche esposte a pericoli ambientali come traffico marittimo e pesca intensiva. Basti pensare al recente caso dei granchi delle nevi, il cui declino improvviso ha scosso la stampa internazionale.

Grazie al nuovo trattato, i 193 paesi firmatari si impegnano ad alzare la quantità di acque internazionali protette al 30%, un terzo degli oceani del mondo, entro il 2030. Senza questo trattato sarebbe stato impossibile raggiungere l’obiettivo del 30×30, definito pochi mesi fa alla COP15 di Montreal.

Questo non salvaguarda gli ambienti dalla sola pesca, ma anche dalle esplorazioni minerarie e dalle trivellazioni petrolifere, procedimenti estrattivi che, sebbene meno frequenti, sono molto più dannosi per gli ecosistemi marini e le specie che vi abitano. In aggiunta a questi, anche le “discariche galleggianti”, grandi ammassi di rifiuti di plastica, sono una crescente minaccia per la salute di animali marini e umani tutti. Gli oceani infatti producono circa la metà dell’ossigeno che respiriamo (sì, non sono solo le foreste a compiere la fotosintesi ma anche le alghe) e sono il più grande bacino di assorbimento di anidride carbonica di cui il pianeta dispone.

Queste potenzialità vengono però minacciate dall’aumento dell’acidificazione delle acque, che diminuisce sia la quantità di CO2 che possono assorbire, sia la varietà di specie che possono abitarvi.

Non è tutto oro quello che luccica, però: rimangono ancora molti problemi da risolvere riguardo il trattato, che non specifica i finanziamenti necessari alla sua realizzazione (con grande disappunto dei paesi del Sud globale) e non è ancora legalmente vincolante. Inoltre non è stato ancora definito l’iter preciso che ogni nazione dovrà seguire per designare le aree protette e in che misura, e i paesi firmatari non hanno proposto responsabilità aggiuntive né controlli ambientali più rigorosi per le istituzioni che già si occupano di salvaguardia degli ambienti marini.

“Per quanto riguarda l’inquinamento e la biodiversità, non è abbastanza”, dichiara Inger Andersen, la direttrice esecutiva del Programma Ambientale delle Nazioni Unite, “Siamo su una traiettoria ecologica che non promette bene. Ma ciò che promette bene è che siamo riusciti a giungere a un accordo soddisfacente su alcuni di questi problemi critici. A maggio si discuterà di nuovo sulle regolamentazioni per le plastiche. Stiamo facendo progressi.”

Insomma, come abbiamo già imparato dal Protocollo di Kyoto e dall’Accordo di Parigi, avere un obiettivo numerico non significa necessariamente avere un piano realistico per raggiungerlo, soprattutto quando si parla di collaborazioni internazionali fra stati che mettono al primo posto gli interessi nazionali ed economici.

In questo contesto, dove si pone il governo italiano? “Confidiamo che l’Italia, la cui delegazione ha lavorato per anni all’accordo, sia tra i primi a sottoscriverlo”, afferma Pietro Vuolo, esperto di Diritto Internazionale del Mare. Ma il silenzio del ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, sulla questione degli impegni ecologici internazionali fa intuire che il governo attuale sia ancora terribilmente in alto mare.

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