Ciò che emerge dalla condanna del dott. Maurizio Lipani, commercialista, è devastante per la credibilità dell’antimafia e la responsabilità in ultima istanza è di una politica intermittente e inadeguata.

Dalle cronache si apprende che il Gup di Trapani ha condannato in primo grado il dott. Lipani alla pena, durissima, di 10 anni di reclusione e con lui la moglie, Maria Teresa Leuci, a 3 anni e 9 mesi per peculato: avrebbero depredato i beni, sottoposti a sequestro, dell’amministrazione giudiziaria dei quali erano stati incaricati da differenti tribunali. Si legge che il commercialista palermitano godeva di grande stima e che in particolare veniva considerato lontano dal “modello Saguto”, che tanto danno ha già provocato alla reputazione di quella articolazione dello Stato che ha il compito, delicatissimo, di gestire bene i patrimoni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

La posta in gioco è altissima: non far rimpiangere la mafia nella produzione di ricchezza e quindi di lavoro, soprattutto quando ad essere sottratte alla disponibilità criminale sono aziende capaci di stare sul mercato.

L’arresto di Matteo Messina Denaro ha recentemente riportato alla ribalta il nodo centrale delle ricchezze mafiose e ha offerto una nuova occasione per riflettere su quanto il prestigio mafioso dipenda dalla capacità di foraggiare un’economia parallela, dalla quale in tanti dipendono per la propria sussistenza. Proprio l’arresto di Messina Denaro ha quindi riproposto, in tutta la sua drammaticità per le sorti della tenuta della legalità democratica, la centralità della corretta gestione di sequestri e confische, che deve tradursi in continuità occupazionale e in bonifica del mercato a vantaggio di tutti gli operatori onesti. Altrimenti l’effetto boomerang è deleterio: meglio la mafia dello Stato! Almeno con la mafia si mangia in tanti, con lo Stato mangiano soltanto gli amministratori e arrivano abbandono, fallimenti e disoccupazione.

La vicenda Lipani darà sicuramente nuovo carburante a quanti non smettono di preferire la connivenza con i mafiosi e a quanti spingono per un sostanziale ridimensionamento di tutto il comparto delle misure di prevenzioni patrimoniali, che invece restano un caposaldo irrinunciabile per la lotta alle mafie. Un vero capolavoro!

Ma il punto per me non è questo.

Ammettiamo che Lipani e Leuci siano innocenti: lo sono sicuramente perché non è definitiva la condanna e io auspico sinceramente che lo siano. Spero, senza ironia, che possano dimostrare la loro innocenza nei successivi gradi di giudizio, lo spero per la tenuta delle Istituzioni, lo spero perché – a due settimane dalla Giornata della Memoria e dell’Impegno dedicata alle vittime innocenti delle mafie – questa storia suona come una offesa alla memoria di chi per lo Stato ha pagato con la vita.

Qual è il punto?

Si legge dalle cronache che il professionista accumulava un incarico dietro l’altro, non soltanto il sequestro Parisi, ma anche Rotolo, Pipitone, Sbeglia, e dal Tribunale di Reggio Calabria niente meno che quello ad Amedeo Matacena (recentemente stroncato da un infarto mentre stava per finire di scontare la sua latitanza a Dubai). Ma dove è finita la rotazione degli incarichi? Dove sono finite le norme per il quale ci siamo strenuamente battuti nella XVII Legislatura e che dovevano impedire che il medesimo amministratore giudiziario accumulasse più di tre incarichi e che comunque il numero degli incarichi dovesse essere valutato sulla base del valore economico dei medesimi, proprio per evitare inopportune concentrazioni di potere economico?

Sono stato il relatore per la maggioranza della riforma del Codice Antimafia nella XVII Legislatura e ricordo molto bene le resistenze che dovemmo superare per scrivere queste norme e in particolare il comma 2 dell’art. 35, che riporto di seguito (nella formulazione attualmente vigente, che è stata ulteriormente emendata nel 2018, ma senza che sia stato modificato il meccanismo previsto da noi nel ’17):

Art. 35 com 2.
L’amministratore giudiziario è scelto tra gli iscritti nell’Albo nazionale degli amministratori giudiziari secondo criteri di trasparenza che assicurano la rotazione degli incarichi tra gli amministratori, tenuto conto della natura e dell’entità dei beni in stato di sequestro, delle caratteristiche dell’attività aziendale da proseguire e delle specifiche competenze connesse alla gestione. Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’interno e con il Ministro dello sviluppo economico, sono individuati criteri di nomina degli amministratori giudiziari e dei coadiutori che tengano conto del numero degli incarichi aziendali in corso, comunque non superiore a tre, con esclusione degli incarichi già in corso quale coadiutore, della natura monocratica o collegiale dell’incarico, della tipologia e del valore dei compendi da amministrare, avuto riguardo anche al numero dei lavoratori, della natura diretta o indiretta della gestione, dell’ubicazione dei beni sul territorio, delle pregresse esperienze professionali specifiche. Con lo stesso decreto sono altresì stabiliti i criteri per l’individuazione degli incarichi per i quali la particolare complessità dell’amministrazione o l’eccezionalità del valore del patrimonio da amministrare determinano il divieto di cumulo. L’amministratore giudiziario è nominato con decreto motivato. All’atto della nomina l’amministratore giudiziario comunica al tribunale se e quali incarichi analoghi egli abbia in corso, anche se conferiti da altra autorità giudiziaria o dall’Agenzia.

Ecco perché all’inizio di questo post ho parlato di una politica intermittente e inadeguata: quale presidio è stato fatto in questi anni sul buon funzionamento del sistema?
Non ci si può affidare, ancora una volta, alla censura postuma della sentenza penale, ci vogliono manutenzione e attenzioni costanti e capaci di prevenzione. Anche su questo si misura l’autenticità della politica che si picca di essere antagonista di ogni diseguaglianza, perché le mafie restano uno dei principali fattori strutturali di diseguaglianza in questo Paese.

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