L’elettrificazione coatta del parco automobilistico europeo è tuttora controversa, anche tra i blogger attivi su questa testata. Oltre alle discussioni tecnologiche, tengono banco le dispute pur legittime sulle conseguenze pratiche, soprattutto locali, abituati come siamo all’ispezione del nostro cortile. Prima tra tutte, la criticità della infrastruttura di ricarica, necessariamente capillare ma difficile da sviluppare sia in contesti urbani consolidati sia in campagna. Senza citare le analisi non sempre convergenti tra costi e benefici, sia ambientali, sia economici; un esercizio abbastanza aleatorio giacché l’elettrificazione veicolare non è indipendente dalla questione energetica nel suo complesso.

Chi guarda soltanto nel cortile di casa trascura l’impatto di questa misura alle diverse scale geografiche. L’auto elettrica salverà il clima del mondo? Può darsi, ma farà molta fatica. E, se orfana di una rivoluzione energetica fondata rigorosamente sulle fonti rinnovabili, avrà la stessa efficacia del dragaggio marino o della desalinizzazione nel contrastare la crescita del livello oceanico.

Con l’impulso alla sostituzione forzata del parco automobilistico, l’Europa sta contribuendo all’inquinamento nel Sud del mondo, soprattutto l’Africa, dove esporta milioni di veicoli obsoleti che non soddisfano gli standard minimi di emissione. Non è la lagna di un innamorato del motore a scoppio che vede salpare il proprio amato bene verso gli altri continenti, ma sono le conclusioni di un Rapporto Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente che aiuta i paesi in via di sviluppo a implementare le politiche ecologiche. Secondo il rapporto, circa 14 milioni di vecchi veicoli sono stati esportati da Europa, Giappone e Stati Uniti tra il 2015 e il 2018 (v. Figura).

Se nel 2015 il flusso si limitava a soli tre milioni e mezzo di auto usate, nel 2019 ne sono state esportate cinque milioni. E il flusso sta tuttora crescendo. Quattro su cinque di questi veicoli finiscono in paesi poveri; e più della metà sulle strade africane. Se tutti questi veicoli non rispettano giocoforza le norme ambientali più recenti, quasi tutti non soddisfano la normativa Euro 4, entrata in vigore nel 2005 con l’intento di ridurre il particolato nell’aria, una delle più subdole minacce alla salute anche nel cortile di casa nostra.

Non è comunque meglio riusare ciò che può ancora svolgere la propria funzione anziché rottamarlo, trasformandolo in rifiuto, pur vivisezionato e parzialmente riciclato? In linea teorica sarebbe una buona idea, per esempio usando il bioetanolo con cui un taxista di Kumasi o di Mekelle alimenta la mia vecchia Mercedes-Benz W123, che avrà ormai superato con onore i cinque milioni di chilometri. La riduzione delle emissioni del parco circolante non è mai stata al centro delle attenzioni tecnologiche nei paesi sviluppati, più orientati alla sostituzione che al recupero funzionale. In pratica, la cultura del riciclo d’uso non è in sintonia con la religione del mercato, né alla portata di società arretrate, anche se in Etiopia incontrai 35 anni fa uno dei migliori meccanici mai visti all’opera.

Questo commercio è potenzialmente utile poiché garantisce ai veicoli più anziani, scartati dai ricchi del mondo, una seconda vita e rende accessibile a chi è meno ricco un livello di mobilità personale prima impensabile. A che prezzo? Non soltanto le vecchie auto danneggiano l’ambiente e alimentano il riscaldamento globale, ma mettono a serio rischio la vita umana, perché non sono sicure. Se pesato alla luce del tasso di motorizzazione, il numero delle vittime africane di incidenti stradali è spaventoso, circa 250mila all’anno. In Africa, la mancanza di regole sull’inquinamento e sulla sicurezza dei veicoli regna quasi ovunque sovrana, pur se qualche timido tentativo si sta facendo, soprattutto in Africa occidentale.

Se per contenere le emissioni qualcosa si potrebbe fare, l’aggiornamento dei sistemi di sicurezza di un veicolo comporta una attitudine tecnologica del tutto estranea, per ragioni diverse, sia al mondo occidentale sia ai paesi poveri. Inoltre, si è scoperto che molti veicoli europei destinati all’esportazione vengono privati di organi preziosi, ricercati in Europa come pezzi di ricambio. Queste auto mancano spesso di componenti importanti come abs, esp, airbag e convertitori catalitici quando vengono caricate su una nave e spedite in paesi come il Kenya, la Nigeria e l’Uganda, dove più del 90 per cento dei veicoli immatricolati sono auto usate d’importazione dall’Occidente, con una età media di vent’anni.

È improbabile che le cose migliorino senza nuove leggi, perché prevediamo che il miliardo di veicoli circolanti nel mondo aumenterà esponenzialmente entro il 2050, quando si stima un parco circolante di due miliardi e mezzo di veicoli. E la crescita maggiore avverrà proprio nei paesi a basso reddito. Gli europei continueranno a esportare l’inquinamento, come hanno fatto trasferendo le attività industriali più pericolose nei paesi del Global South?

I trasporti contribuiscono a circa un quarto delle emissioni antropiche di CO2, prima causa del riscaldamento globale. Inoltre, le emissioni dei veicoli sono responsabili di circa 3 milioni di morti ogni anno in tutto il mondo. La rivoluzione ecologica non si fa in modo cinico, nascondendo la spazzatura sotto il tappeto della casa d’altri, anche se si tratta di un buon affare. La circolazione atmosferica non riconosce i confini politici né quelli sociali. E ciò che scacciamo dalla porta rientrerà dalla finestra.

[Foto in evidenza: un giovane ragazzo ripara un freno in un’officina automobilistica, nel villaggio di Masara, nel distretto di Meet Ghamr, nel governatorato di Daqhlia, in Egitto. 3 giugno 2007 – LaPresse]

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