Tenete a mente due numeri, quello dei rifugiati siriani presenti in Turchia, 3,5 milioni, e quello delle ammissioni umanitarie concesse loro dai Paesi europei: 39 mila. I dati sono quelli del ministero dell’Interno turco. Fotografano ciò che l’Europa ha fatto negli ultimi nove anni e dopo l’accordo che ha trasformato la Turchia nella prima nazione al mondo per numero di rifugiati, oggi più di 4 milioni. Troppi per un paese a basso reddito, sulla soglia di una profonda crisi economica e colpito, lo scorso 6 febbraio, da un terremoto che ha causato 44 mila morti. Epicentro nella provincia di Gaziantep dove vivono mezzo milione di siriani, sempre più mal visti dall’opinione pubblica e propensi a migrare. Impegnato nell’emergenza post sisma, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha fatto capire all’Europa che “nella risposta al terremoto il tempo sta per scadere e rischia una nuova ondata di rifugiati“.

L’illusione che i miliardi dell’Unione potessero tenere per sempre milioni di persone in Turchia si è infranta il 26 febbraio sulle coste calabresi. I migranti naufragati al largo di Crotone erano partiti dalle coste turche. Tante le donne e i bambini, non a caso. Dopo aver pagato Ankara per tenersi i migranti, l’Europa sta aumentando gli investimenti nel controllo delle frontiere esterne. Così l’ingresso in Grecia attraverso l’Egeo è sempre più pattugliato mentre la rotta balcanica è diventata un calvario dove tocca attraversare a piedi intere nazioni col rischio di essere respinti, spogliati di tutto o peggio. Chi non può prendersi quei rischi prende il mare in direzione dell’Italia. 18 mila gli sbarchi nel 2022, che la crisi turca promette di aumentare. Secondo Ankara circa 20mila persone hanno già fatto ritorno in Siria, l’altro paese colpito dal sisma, anche grazie alla possibilità offerta dal governo di allontanarsi per alcuni mesi senza perdere il diritto d’asilo. Non solo: “Negli ultimi anni la solidarietà nei confronti dei rifugiati siriani si è erosa, lasciando spazio al risentimento e alla tensione pubblica”, ha scritto Kemal Kirişci, esperto della questione turca al Bookings di Washington. E aggiunge: “La percentuale di cittadini turchi che vogliono il rimpatrio dei rifugiati è passata dal 49% nel 2017 all’82% nel 2021. I danni causati dai terremoti stanno aggravando il senso di antagonismo e le narrazioni anti-rifugiati inondano i social media”. Così, a causa delle tensioni sociali il numero di siriani che valuta di trasferirsi in Paesi terzi qualora se ne presentasse l’opportunità è cresciuto costantemente, “dal 34,1% nel 2019 al 55% nel 2021”.

Ma facciamo un passo indietro. Dopo che un milione di persone aveva varcato i confini europei nel 2015, il 18 marzo 2016 venne siglato il cosiddetto accordo Ue-Turchia. Sei miliardi di euro al governo di Recep Taypp Erdogan per bloccare i flussi verso l’Europa. Sulla carta l’Unione si prese un’impegno: “Una volta terminati o per lo meno drasticamente ridotti gli attraversamenti irregolari fra la Turchia e l’Ue, verrà attivato un programma volontario di ammissione umanitaria“. Inoltre, “per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all’Ue”. Un progetto di redistribuzione che avrebbe dovuto rendere più sostenibile la presenza dei rifugiati siriani, riducendo il rischio di una nuova emergenza migratoria. Un’occasione anche per la disastrata situazione demografica europea, visto che nel frattempo 800 mila bambini siriani sono nati in Turchia e 1,6 milioni di siriani hanno meno di 18 anni. Ma l’Unione non ha saputo cogliere occasioni né mantenere promesse. Dal 2014 al 2022 il programma “un reinsediamento per ogni rimpatrio” ha portato in Europa appena 36.763 siriani. Non sono dati facilmente recuperabili sui siti dell’Unione europea. A pubblicarli in modo chiaro e accessibile è invece il ministero dell’Interno turco. Tra i 20 Paesi Ue coinvolti, la Germania ha concesso 15.042 ammissioni umanitarie. Seguono Francia e Paesi Bassi con 5,5 mila ammissioni, la Svezia con 3,1 mila, la Finlandia con 2,7 mila e il Belgio con 1,7 mila. L’Italia è al nono posto con 396 siriani ammessi.

Ancora peggio è stato fatto sul fronte delle ammissioni umanitarie su base volontaria, che dal 2014 sono state 20.352 (dati aggiornati al 12 gennaio 2023). Ma di queste oltre 10 mila le ha concesse il Canada, 4,5 mila gli Usa, 2,6 mila la Gran Bretagna e 2 mila la Norvegia. 185 sono i siriani finiti in Svizzera, 115 in Australia e alcuni in Islanda e in Nuova Zelanda. In nove anni, noi europei abbiamo ammesso solo 3 mila siriani dei 3,5 milioni presenti in Turchia. Nell’elenco di 17 paesi pubblicato dal ministero dell’Interno turco la Francia è all’ultimo posto con una sola persona ammessa e l’Italia non c’è. Tuttavia questi dati non possono stupire. Nel 2020 i 27 Stati dell’Unione, una comunità di 500 milioni di abitanti, ha concesso il reinsediamento di persone bisognose da campi profughi di paesi terzi in appena 20 mila casi. E così per l’intero Occidente, che si fa carico solo del 14 percento dei migranti che cercano protezione fuori dal paese d’origine. Il grosso resta sulle spalle di paesi a medio o basso reddito sui quali anche l’Europa punta e investe perché blocchino l’immigrazione. L’accordo con Ankara è l’esempio più eclatante dell’esternalizzazione delle frontiere messo in atto dall’Unione, forse l’unica, vera politica europea sull’immigrazione, coerente negli anni. Ma non altrettanto lungimirante: qualunque cosa voglia dire “fermare le partenze“, quanto sta accadendo in Turchia dimostra che muri e miliardi potrebbero non bastare. Anzi, rischiano di costarci caro. Tenete a mente un altro numero: se dal 2014 ognuno dei 27 Paesi membri avesse accolto 4 mila siriani l’anno, oggi in Turchia ce ne sarebbe un milione in meno e forse non dovremmo interrogarci sulle ragioni che spingono tanti rifugiati a rischiare la vita in mare.

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