Dopo oltre sei anni dalla tragedia, 1.318 giorni dalla prima udienza del 16 luglio 2019, ben 15 rinvii e le aule separate in piena emergenza Covid, oggi è arrivata la sentenza di primo grado al processo per la valanga sull’Hotel Rigopiano. Il giudice di Pescara, Gianluca Sarandrea, ha emesso la sentenza: 25 assolti (tra cui l’ex prefetto) e 5 condannati tra cui l’attuale sindaco di Farindola. Al primo cittadino, Ilario Lacchetta, sono stati inflitti 2 anni e otto mesi. Condannati i funzionari della Provincia, Paolo D’Incecco e Mauro Di Blasio a 3 anni e 4 mesi, il gestore dell’hotel Bruno Di Tommaso a 6 mesi e il tecnico Giuseppe Gatto a 6 mesi. Assolti l’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo, e l’ex presidente della Provincia, Antonio Di Marco e tutti gli altri imputati. Il verdetto ha scatenato la reazione dei parenti delle vittime. Nel caos qualcuno ha gridato contro il giudice: “Vergogna, vergogna. Ingiustizia è fatta. Assassini. Venduti. Fate schifo”. Alcuni parenti sono stati trattenuti a stento dalle forze dell’ordine. Lacrime e urla in aula tanto da richiedere l’intervento di poliziotti e carabinieri che sono stati costretti a bloccare la tentata aggressione al giudice, blindato in aula. “Attenderemo le valutazioni della sentenza per valutare il ricorso all’appello. Ciò che emerge chiaramente è che è stato cancellato il reato di disastro colposo” spiega all’Ansa il capo della Procura pescarese Giuseppe Bellelli.

La sentenza – Lacchetta è stato ritenuto responsabile limitatamente alla omissione dell’ordinanza di inagibilità e di sgombero dell’Hotel Rigopiano. D’Incecco e Di Blasio, rispettivamente dirigente e responsabile del servizio di viabilità della Provincia di Pescara, sono stati invece ritenuti responsabili relativamente al monitoraggio della percorribilità delle strade rientranti nel comparto della S.P. 8, e alla pulizia notturna dalla neve ovvero al mancato reperimento di un mezzo sostitutivo della turbina Unimog tg CK 236 NB fuori uso, nonché alla mancata chiusura al traffico veicolare del tratto stradale della provinciale 8 dal bivio Mirri e Rigopiano. Concesse a entrambi gli imputati le circostanze attenuanti generiche. Sei mesi di reclusione per falso, infine, al gestore dell’albergo e amministratore della società Gran Sasso resort&spa Di Tommaso e Gatto, redattore della relazione tecnica allegata alla richiesta della stessa società di intervenire su tettoie e verande dell’hotel.

La requisitoria – Il pomeriggio del 18 gennaio del 2017 migliaia di metri cubi di neve spazzarono via tutto, la struttura, ma soprattutto 29 vite umane. Tra i 30 imputati esponenti politici, funzionari, dirigenti prefettizi e i gestori dell’Hotel, per ipotesi di reato che vanno dal disastro colposo, omicidio plurimo colposo, lesioni plurime colpose, falso ed anche depistaggio e abuso edilizio. Il procuratore Giuseppe Bellelli nella sua requisitoria ha auspicato “una sentenza che in nome della Costituzione e del Popolo Italiano affermi il modello di amministratore pubblico che aveva il dovere di prevedere il peggio ed evitare la tragedia”. Per l’accusa quanto accaduto è stato “un fallimento di un intero sistema”: “ovvero l’omessa pianificazione territoriale di una Legge del 1992. La Carta valanghe era un compito che spettava ai dirigenti della Regione Abruzzo, e quell’idea tempestiva e lungimirante è rimasta una buona intenzione senza risultati. Si è trattato di un ritardo inaccettabile”.

Circa 150 anni di condanna richiesti, in totale, per gli imputati: dai 12 anni all’ex Prefetto Francesco Provolo, agli 11 anni e 4 mesi per il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta ed il suo tecnico comunale Enrico Colangeli, ai 10 anni per i dirigenti della Provincia di Pescara Paolo D’Incecco e Mauro Di Blasio. L’accusa aveva invocato 9 anni per i dirigenti della Prefettura Ida De Cesaris e 8 anni per Leonardo Bianco. Mentre per l’ex presidente della provincia Antonio Di Marco la richiesta è stata di 6 anni. Cinque anni erano stati chiesti per i dirigenti regionali Carlo Giovani, Pierluigi Caputi, Emidio Primavera, Sabatino Belmaggio, Carlo Visca, pena più alta – 7 anni – per Vincenzo Antenucci. Per gli ex sindaci del comune di Farindola Massimiliano Giancaterino e Antonio De Vico 6 anni, per Bruno Di Tommaso gestore dell’hotel 7 anni e 8 mesi. Pene di 4 anni per il geologo Luciano Sbaraglia, 4 anni anche per i dirigenti provinciali Giulio Honorati, 3 per Tino Chiappino, 2 per Andrea Marrone, poi un anno per il tecnico Giuseppe Gatto. Sul fronte del presunto depistaggio in Prefettura erano stati chiesti 2 anni e 8 mesi per Daniela Acquaviva e Giulia Pontrandolfo, due anni per Giancarlo Verzella. Chiesto il proscioglimento a causa della prescrizione per Antonio Sorgi e i funzionari della Prefettura Salvatore Angieri e Sergio Mazzia. Si ritiene prescritto, quindi sentenza di non luogo a procedere, l’imprenditore Paolo Del Rosso. Quasi tutti gli avvocati difensori, invece, hanno puntano sull’assoluta imprevedibilità dell’evento. Giovedì mattina un grande striscione era stato posizionato all’ingresso del Tribunale di Pescara nel ricordo delle 29 vittime. Tutti presenti i parenti delle vittime ed anche diversi superstiti tra cui Giampiero Matrone, che perse la moglie, ed il cuoco Giampiero Parete il primo che diede, inascoltato, l’allarme quel pomeriggio.

La rabbia dei parenti delle vittime – Proprio Matrone ha minacciato il gup: “Giudice, non finisce qui”. “Non me lo aspettavo. Oggi è morto lo Stato italiano. Questa tragedia ha colpito noi in primis, ma poi tutta l’Italia. Ho messaggi di vicinanza da parte di tutti. È andata come non speravamo. La cosa più brutta è che speravamo sempre in un minimo di giustizia nei confronti di chi non c’è più e di tutti noi: non c’è stata. Zero proprio. Questa è la cosa che fa più male. Non molliamo, continueremo. da domani volevo ricominciare a vivere, ma purtroppo continuerò a sopravvivere”.

“Questi qui hanno una discarica al posto del cuore! Speriamo nell’appello, ma se questo è l’andazzo non spero più niente, devo solo salvaguardare la mia vita per portare avanti il nome di mia figlia” ha detto, il padre di Jessica Tinari, morta nel resort di Farindola a 24 anni insieme al fidanzato Marco Tanda. “Noi pretendiamo rispetto dalle istituzioni, paghiamo con le nostre tasse i loro lauti stipendi e questi delinquenti ci trattano in questo modo. Meglio che stia zitto, sennò non so cosa posso dire”. Urla in aula Francesco D’Angelo, fratello di Gabriele D’Angelo, cameriere dell’hotel, morto nel crollo. “Sei anni buttati qua dentro! Per fare che? Tutti assolti, il fatto non sussiste! Quattro minuti di chiamata! Chi ha chiamato mio fratello? Chi ha chiamato?” urla disperato ricordando le telefonate di Gabriele dirette verso la Prefettura la mattina del 18 gennaio 2017. D’Angelo, alle 11.38, circa cinque ore prima della valanga, chiamò il Centro coordinamento soccorsi della prefettura per chiedere di liberare la strada e consentire agli ospiti dell’hotel di lasciare la struttura. “Mio figlio vale 17mila euro. Tanto ha deciso il giudice. La giustizia è morta” commenta Alessio Feniello, papà di Stefano, morto mentre festeggiava il suo 28esimo compleanno insieme alla fidanzata, sopravvissuta. “Viene da porsi il problema se l’impianto accusatorio della procura della Repubblica fosse quello corretto. L’avevo detto in tempi non sospetti e spesso e volentieri ho detto in aula che mancavano degli imputati e che bisognava forse seguire il denaro e fare anche degli altri spazi di indagine – dice l’avvocato Romolo Reboa, legale di cinque famiglie – Le sentenze vanno lette e si commentano quando sono state lette. Oggi si commenta il risultato”.

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