“L’iniziativa non ha misurato i miglioramenti della situazione dei beneficiari, né ha prestato sufficiente attenzione alle necessità dei soggetti più colpiti. I costi dell’uso di nuove tecnologie hanno reso più difficile per i nuclei familiari più poveri beneficiare del programma. Inoltre, poche azioni includevano attività specificamente rivolte alle esigenze delle donne”: così la Corte dei Conti dell’Unione Europea riassume il giudizio sull’“Alleanza mondiale contro il cambiamento climatico” (Global Climate Change Alliance – Gcca), iniziativa della Commissione che dal 2007 al 2020 ha finanziato con 729 milioni di euro interventi per aumentare la “resilienza” al cambiamento climatico di 80 tra i Paesi meno sviluppati e i piccoli Stati insulari in via di sviluppo che – pur contribuendo in misura minima alle emissioni di gas a effetto serra – sono i più colpiti dagli impatti del cambiamento climatico. Le azioni sono state realizzate principalmente attraverso le organizzazioni delle Nazioni Unite e le agenzie di aiuto allo sviluppo degli Stati membri. L’iniziativa, che non è stata rinnovata, era incentrata sul rafforzamento delle capacità istituzionali attraverso attività di formazione – risultate poco efficaci a causa dell’elevato grado di avvicendamento del personale – e su interventi concreti di mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Ma i risultati analizzati dalla Corte sono stati scarsi, mentre le spese di gestione sono state spesso giudicate “non ragionevoli”, soprattutto nei Paesi del Pacifico.

In Africa, Asia e a Cuba: pochi interventi concreti, molte “formazioni” – La Corte ha basato il suo giudizio sull’esame di 14 interventi: cinque nel Pacifico, due in Bangladesh, due in Etiopia, due in Bhutan, una in Niger e una a Cuba, nonché un’azione regionale riguardante l’intera Africa. Il valore totale degli interventi ammontava a 95,4 milioni di euro, pari al 16 per cento dei fondi per contratti stipulati complessivamente dall’iniziativa. L’Alleanza mondiale contro il cambiamento climatico aveva due obiettivi: da un lato promuovere il dialogo e la condivisione delle conoscenze, attraverso conferenze e workshop a livello nazionale o internazionale; dall’altro fornire sostegno tecnico e finanziario per le misure di adattamento, mitigazione e riduzione del rischio di catastrofi, in particolare nel settore agricolo e alimentare. Ma le azioni concrete di mitigazione, per la Corte, sono state sacrificate alle attività di formazione: “ll sostegno ai Paesi interessati ha riguardato essenzialmente lo sviluppo di capacità, dato che il personale che aveva ricevuto la formazione abbandonava i progetti – scrivono i magistrati contabili – la continua attenzione rivolta allo sviluppo di capacità è stata in alcuni casi privilegiata rispetto al sostegno ad un potenziamento delle azioni di adattamento concrete ed efficaci individuate come risposta alle necessità crescenti di questi paesi”. In generale, “l’iniziativa non ha fornito il sostegno necessario per accrescere le misure di adattamento, quali quelle relative allo stoccaggio dell’acqua dei nuclei familiari, per i Paesi con popolazioni più numerose”.

Famiglie più povere “escluse” dai benefici e costi del personale “irragionevoli” – “In Cambogia, Nepal, nel Pacifico e in Tanzania, il costo degli interventi di adattamento ha fatto sì che i nuclei familiari più vulnerabili fossero per lo più esclusi”, scrive la Corte. “Ad esempio – spiega – il costo per il trasporto di serbatoi di accumulo dell’acqua piovana alle isole più remote di Palau non era economicamente accessibile per i nuclei familiari più piccoli e più poveri”. Per diverse azioni comprese nel campione di progetti analizzato, la Commissione ha valutato come “insufficiente” “la ragionevolezza dei costi” di trasporto e del personale. I costi per il personale di un’azione in Etiopia “sono più che raddoppiati (da 0,6 milioni di euro a 1,3 milioni di euro) nel corso dell’attuazione”. “Ciò ha consentito al partner esecutivo di assumere più personale con stipendi più elevati, ma non vi era alcuna analisi indicante la necessità di aumentare i costi, né la valutazione della loro ragionevolezza”. “Il bilancio per un’intervento a Cuba comprendeva costi di gestione pari al 27%”, e “in Africa sono state dichiarate spese finali di viaggio pari a 2,4 milioni di euro (31 % della spesa)”. I costi di gestione sono stati valutati come “particolarmente elevati” nel Pacifico: “In diverse azioni rappresentavano rispettivamente il 43 %, il 59 % e il 53 % del bilancio totale”.

Interventi concreti: disastro in Etiopia – “Dalla valutazione dell’intervento in Etiopia è emerso che le attività pilota realizzate con successo erano state sospese una volta terminata l’azione a causa della carente manutenzione di strumenti e attrezzature”, afferma la Corte. In particolare: “Molte delle pompe idrauliche a mano erano danneggiate e gli agricoltori non potevano utilizzarle; la maggior parte dei pozzi forniti era crollata; un vivaio era fallito a causa della mancanza di sementi; gli agricoltori non hanno potuto praticare l’allevamento in stalla con successo a causa della mancanza di foraggio; il sistema di irrigazione a goccia si è rivelato inadeguato a causa del tempo e degli sforzi necessari a portare l’acqua ai serbatoi rialzati”. La Corte spiega che la prosecuzione dell’intervento nel Paese africano “ha riguardato principalmente sullo sviluppo di capacità”, ovvero la formazione, e non ha continuato gli interventi concreti.

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