di Saverio Regasto*

La riforma Cartabia, di recente entrata in vigore, dopo il rinvio – peraltro tecnicamente problematico perché previsto da un Decreto Legge che è intervenuto sulla cosiddetta vacatio legis – operato dall’attuale governo, sta facendo parlare di sé non solo per le modifiche operate alle disposizioni sulla prescrizione (mediante l’introduzione di rigidi termini entro i quali devono necessariamente concludersi il procedimento d’appello e quello in Cassazione, a pena di improcedibilità), bensì anche per la imponente depenalizzazione e, infine, per la trasformazione della procedibilità di delitti, come si dice tecnicamente, da reati perseguibili d’ufficio (in buona sostanza, l’iniziativa, peraltro obbligatoria secondo le prescrizioni costituzionali, spetta al Pubblico Ministero che viene a conoscenza, in qualsiasi modo, di un fatto), a reati perseguibili “a querela di parte” (quando, cioè, la parte lesa deve necessariamente richiedere l’intervento dell’autorità giudiziaria, entro tre mesi dal momento in cui è stato commesso il fatto, per avviare le indagini).

In questi giorni, come è noto, i mezzi di comunicazione riportano gli allarmi lanciati da varie Procure della Repubblica che si vedono costrette, nel passaggio fra vecchie disposizioni e nuove, ad abbandonare numerose indagini e ad archiviarle perché prive dell’atto d’impulso, la querela, appunto, che legittima, secondo le nuove disposizioni, l’operato dei magistrati.

Non si tratta però di un problema strettamente giuridico (l’allarme, correttamente lanciato, con riferimento all’evaporarsi di procedimenti per reati piuttosto gravi), quanto piuttosto di una scelta consapevole di politica criminale di classe, che sposta il baricentro dell’uso monopolistico della forza dello Stato (che detiene il potere punitivo insito nella sua natura, attraverso il codice penale) dall’area più prettamente penalistica, a quella, mercantilistica, del risarcimento del danno.

In altri e diversi termini, “spostare” una gran quantità di reati dalla perseguibilità d’ufficio alla querela di parte significa mettere nelle mani di chi ha compiuto i fatti penalmente rilevanti il potente strumento di evitare il processo penale attraverso una offerta economica volta a evitare la responsabilità penale. Volendo ulteriormente specificare, significa incidere pesantemente sul principio di eguaglianza (che è garantito dall’obbligatorietà dell’azione penale e, ancor più, dalla perseguibilità d’ufficio dei fatti costituenti reato) introducendo nel sistema la logica che la disponibilità di risorse economiche potrebbe essere in grado di garantire l’impunità.

Comprendo molto bene la necessità che ci si presenti, nel giro di qualche anno, al cospetto dell’Europa con numeri meno drammatici, ma la strada imboccata, per un Paese come il nostro, mi sembra davvero una brutta scorciatoia e, soprattutto, mi sembra porti con sé un profilo ideologico davvero non sopportabile, con buona pace delle forze politiche che si dichiarano paladine delle esigenze delle classi subalterne.

Aveva proprio ragione Antonio Gramsci, troppo presto mandato in soffitta da una certa sinistra salottiera e piccolo borghese, quando sosteneva che oltre alla forza materiale, una classe per diventare dominante deve impadronirsi di un bene più immateriale: della capacità di far apparire indiscutibili le proprie idee e i propri valori agli occhi della maggioranza, che è esattamente ciò che sta accadendo, ma non nel senso che auspicava l’intellettuale sardo.

* Saverio Regasto (1964) è ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università degli Studi di Brescia, dove insegna anche Diritto pubblico dei Paesi islamici. Ha scritto sull’interpretazione costituzionale e forma di governo.

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