Abbiamo cercato caverne dalla notte dei tempi, costruito rifugi e poi edificato case, sino ad oggi, per raggiungere una forma di stabilità. Ci raggruppiamo in paesi e città, per sentirci più forti e non isolati – anche se poi, a dire il vero, nelle metropoli moderne si può anche morire nel proprio appartamento senza che nessuno se ne accorga per mesi.

Ma l’illusione di una vita sicura e stabile è una tentazione universale, fatta eccezione per pochi, tra avventurieri, eremiti o disadattati, a seconda di come li si voglia vedere.

Poi arriva il terremoto, come quello di questi ultimi giorni in Turchia e Siria, come quelli che hanno colpito nel tempo il nostro Belpaese.

Va da sé che non vi può che essere in primis una pietas umana per le vittime, ma il medico della psiche deve necessariamente avere la capacità di esercitare uno sguardo “altro”, che permetta, anche di fronte ad un dramma, la riflessione nel profondo, quella che prepara il salto di coscienza. Dunque questo breve scritto ha l’intento di guardare alla tragedia in una apparente inversione di prospettiva, con occhi rivolti all’interno di noi, e questo non per un mero esercizio speculativo ma perché, in realtà, lo sguardo rivolto all’interno è la via per generare salute anche da un dramma, perché costruisce coscienza e, per dirla alla Hillmann, “fa anima”.

Di fronte all’apocalisse, come molte testate giornalistiche hanno definito il recente sisma, non credo ci si salvi davvero senza coscienza o senza anima. Ed è sempre molto interessante notare come, in questa epoca di scienza e tecnologia, di fronte agli eventi della natura, anche il pensiero più positivista continui a richiamare terminologie che sul piano semantico hanno a che fare con una dimensione trascendente, divina, seppur terrifica. Forse che, per quanto misurabile, la natura non sia effettivamente riducibile a pura organicità e meccanica? Forse che la vita stessa non lo sia, nonostante tutto?

La divinità ha sempre dimorato sulla zolla, quella magnanima che dà i germogli e le messi, come quella ctonia, che terrorizza dall’abisso con la violenza delle sue scosse. C’è una antropologia della faglia che si ritrova in tutte le culture che hanno incontrato la forza tellurica del sotterrano. Tempietti votivi costruiti su crepe del terreno, accanto a laghi vulcanici, altari persino in corrispondenza di falde boracifere e santuari in crateri di vulcani. Là dove la natura svela lembi del suo potere inarrestabile, delle sue vibrazioni incandescenti, abitano divinità nascoste, buie e poderose. Per la psichiatra la tentazione del riverbero di queste immagini sull’inconscio è inevitabile. Le immagini che stiamo vedendo di palazzi che potrebbero essere quelli della via in cui abitiamo letteralmente sbriciolati, oltre ad essere inevitabilmente evocative del grande interrogativo sulla nostra estrema fragilità, dovrebbero interrogarci sulla relazione che profondamente intratteniamo con le forze oscure che stanno nei sotterranei della terra quanto in quelli della psiche. Forze infere, per richiamare a noi la cosmogonia dantesca, violente, vibranti, oltre le parole che ci diciamo e i pensieri che formuliamo su di noi. Abitano l’abisso su cui camminiamo, ma sempre più le escludiamo da noi, dal panorama della nostra coscienza. Infatti, non a caso, quando esse si palesano, nel sisma, nel cataclisma, naturale come umano, esse generano un crescente impatto sulla salute mentale generale, un solco assai più profondo sulla tanto citata resilienza.

Quanto più escludiamo dal nostro dialogo interiore le forze sotterranee, per via della loro oscurità aggressiva che non ci piace e rifiutiamo, tanto più questa forclusione alimenterà le nostre paure, le nostre angosce, frutto della disconnessione crescente con le nostre profondità. E poiché le società sono fatte di individui, anche le società vanno dimorando su abissi che si rifiutano di incontrare, convinte così di poterli eliminare.

Viene da ricordare la parabola della casa costruita sulla sabbia o sulla roccia, per il paradosso che cela: spesso infatti accade che si scambi la sabbia per la roccia e viceversa, come, per tornare al concreto, pare sia accaduto in Turchia, dove il cemento armato conteneva polistirolo.

Le forze sotterranee in verità servono a questo, a non scambiare sabbia con roccia, poiché la stabilità che andiamo cercando sorge sulla coscienza maturata all’ombra dell’instabilità e sulla scelta momento per momento di includerla, trasformarla, trascenderla.

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