di Michele Sanfilippo

Non vorrei apparire come un sostenitore del socialismo reale e pertanto faccio una debita premessa: il commercio è sempre stato, nella storia dell’uomo, una delle più forti spinte alla formazione di nuove civiltà. Il coraggio di questi uomini che affrontavano rotte sconosciute alla ricerca di nuove possibilità di vita e di commercio ha aperto nuove strade e relazioni con civiltà diverse che hanno dato luogo a straordinari cambiamenti anche se, è giusto dirlo, non sempre in spirito di pace e serena convivenza. Ma, da quando il mercato s’è fatto globale, le cose sono profondamente cambiate. Il tanto osannato (nella letteratura imprenditoriale) rischio d’impresa che ha, effettivamente, caratterizzato tanta della storia dei pionieri di nuovi mercati, è stato messo da parte.

I nuovi padroni del mercato globale, che non sono poi molti ma sono molto potenti, preferiscono effettuare i loro affari in un contesto più “tutelato”. Man mano che il mercato è diventato sovranazionale, e quindi globale, ha dapprima preso il controllo dei maggiori mezzi d’informazione e poi, grazie a questo e attraverso il lobbysmo, ha iniziato, più o meno alla luce del sole (a seconda del paese), a portare a se una buona parte della classe politica. Soprattutto quella parte che avrebbe dovuto presidiare quelle norme legislative che avrebbero dovuto mettere un limite allo strapotere del mercato per tutelare, attraverso il welfare state, i più deboli.

Per fare un esempio, Tony Blair va al potere in Gran Bretagna spezzando il più che decennale dominio della Margaret Thatcher, grazie al supporto dei mezzi d’informazione di Murdoch. Una volta al potere, di fatto, non cambia più di tanto le politiche neoliberiste di colei che l’aveva preceduto, tanto da spingerla a dire che Blair era il suo più grande successo, dato che faceva le sue stesse politiche. Bill Clinton, dall’altra parte dell’oceano ma dalla stessa parte politica, prima dà l’ultima spallata alle norme antitrust (che regolavano la crescita che poi si è rivelata smisurata delle imprese), poi ha abolito le norme, a suo tempo introdotte da Franklin Delano Roosevelt dopo il crack del ’29 – Glass-Steagal Act – che impedivano alle banche commerciali di diventare banche d’affari (evento che ha aperto la strada a crisi catastrofiche come quella dei mutui subprime che hanno gettato sul lastrico milioni di piccoli risparmiatori).

Caduto il muro di Berlino tutte le sinistre del pianeta, con l’eccezione della Cina, abbracciano più o meno spontaneamente l’idea che il mercato debba sostituirsi “in toto” allo Stato. L’effetto di medio termine sulla società civile di queste dinamiche è quanto mai evidente: la sanità pubblica è allo sfascio (come chiunque debba farne ricorso può constatare); la scuola pubblica è sempre meno autorevole e si può scommettere che sull’agenda dei nostri politici i prossimi obiettivi saranno la previdenza sociale e i servizi pubblici (sempre meno pubblici e sempre più privati). Ma l’effetto più eclatante e allo stesso tempo più allarmante è quello sull’ambiente.

Il surriscaldamento globale sta avendo effetti drammatici sul fabbisogno d’acqua che si riverbera su ogni aspetto della vita, non solo umana, del pianeta. Eppure sembra che non ci sia piena coscienza dei problemi. Non c’è un telegiornale che dopo aver fatto un servizio, per esempio, sui devastanti effetti della siccità sull’agricoltura, non faccia immediatamente dopo un altro servizio sui problemi del settore turistico della montagna dovuti alla mancanza di neve. Occorre uscire da questa schizofrenia che vorrebbe tenere insieme questo sistema socioeconomico con la giustizia sociale e il rispetto dell’ambiente.

È necessario, prima che sia troppo tardi, prendere atto che:

1. Questo sistema economico sta distruggendo la democrazia rappresentativa e, quindi, la giustizia sociale
2. Ci sono degli evidenti limiti posti allo sviluppo economico dalle risorse del pianeta che non sono infinite

Restiamo in attesa del ritorno della politica.

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