Gli stipendi italiani sono scesi in media nel 2022 del 7,6%. È quanto emerge dei dati diffusi oggi dall’Istat secondo cui lo scorso anno si è chiuso con un incremento medio del valore nominale delle buste paga dell’1,1%. Questi ritocchi vanno però rapportati all’aumento generalizzato dei prezzi legato all’inflazione che è stata dell’8,7%. In sostanza quindi si guadagna un bel po’ di meno di un anno fa. Il divario tra aumento dei prezzi e quello dei salari è il più ampio dal 2001, anno di diffusione dell’indicatore dei prezzi armonizzato a livello europeo. Nel 2022, ricorda l’Istat, sono stati recepiti 33 rinnovi di contratti collettivi ma gli adeguamenti economici sono stati modesti. È andata un po’ meglio nel settore pubblico dove gli stipendi sono saliti del 2,8%. Gli aumenti tendenziali più elevati riguardano l’attività dei vigili del fuoco (+11,7%), dei ministeri (+9,3%) e del Servizio sanitario nazionale (+6,1%, comunque al di sotto dell’inflazione). Nel privato salari inchiodati per commercio, farmacie private e pubblici esercizi e alberghi. I dipendenti dell’industria hanno visto i salari salire di un modesto 1,5%.

Alla fine di dicembre 2022, sottolinea l’Istat, i 47 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 50,4% dei dipendenti – circa 6,2 milioni – e corrispondono al 51,2% del monte retributivo complessivo. I contratti in attesa di rinnovo a fine dicembre 2022 scendono a 26 e coinvolgono circa 6,1 milioni di dipendenti, il 49,6%. Il tempo medio di attesa di rinnovo, per i lavoratori con contratto scaduto, è sceso dai 28,2 mesi di gennaio 2022 ai 24,8 mesi di dicembre 2022. Nel corso del quarto trimestre 2022 sono stati recepiti 3 contratti nel settore privato (lapidei, gas e acqua aziende private e municipalizzate e assicurazioni), mentre per il settore pubblico si segnala il recepimento dei contratti per il comparto della presidenza del Consiglio dei ministri (triennio 2016-2018), Regioni e autonomie locali, Servizio sanitario nazionale e comparto Scuola, Istruzione e Ricerca (tutti e tre relativi al triennio 2019-2021). L’Italia è l’unico paese dell’Ocse in cui le retribuzioni odierne sono uguali a quelle di 30 anni fa.

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