La lotta contro il cancro. Eh già: da Mihajlovic a Vialli la retorica della malattia come una partita, come un ring o un tatami o quel che sia dove c’è chi vince e chi perde. E soprattutto, in base a quella retorica dove la vittoria o purtroppo la sconfitta arriva dopo una lotta eroica che si conclude con qualcuno, il malato o la malattia, che è stato più forte dell’altro. Per carità nulla di male: è narrazione. Già, solo narrazione però: perché Mihajlovic era un guerriero vero, sì, in campo. Come Jonah Lomu, come Joe Frazier, ma la malattia non è marcare un avversario, scappargli via o buttarlo giù. È casualità, per lo più.

L’esempio di Gianluca Vialli è probabilmente un manifesto proprio in questo senso: la normalità di una malattia che purtroppo entra nelle vite delle persone spesso e senza alcuna trama da romanzo epico, e che vede il malato non a petto in fuori a suonarle all’avversario invasore pronto a mostrarne lo scalpo, non a immaginarsi tributi all’eroe. Forse l’opposto. L’opposto, sì: perché non c’è nulla di epico nella normalità. Basterebbe leggere proprio Gianluca Vialli: “L’ho detto più volte, se mi mettessi a fare la battaglia col cancro ne uscirei distrutto”. Per poi spiegare con la consueta signorilità una road map fatta di cose piccole, normali. Come il pensare di voler sopravvivere ai tuoi genitori o di voler portare le figlie all’altare perché “non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene”, al punto da girare “col maglione sotto la camicia” per nascondere la magrezza, “perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano”.

Non offrire una dimensione di sofferenza per non soffrire ulteriormente, dunque, perché anche lo star male diventa un qualcosa con cui convivere e che non andrà via mostrando i muscoli: “Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, ma non posso farci niente” ha spiegato Vialli. E ha spiegato pure Vialli, e probabilmente insegnato, che con quel compagno di viaggio ci ha convissuto fin dal 2017, quasi sei anni dunque, che una convivenza così lunga non è – né può essere – roba da romanzo o da duello teatrale tra protagonista e antagonista, ma vita quotidiana: “La malattia non è esclusivamente sofferenza, ci sono dei momenti bellissimi. La malattia ti può insegnare molto di come sei fatto, ti può spingere anche più in là rispetto al modo anche superficiale in cui viviamo la nostra vita. La considero anche un’opportunità. Non dico che arrivo fino ad essere grato nei confronti del cancro, però non la considero una battaglia”.

Perché non lo è, semplicemente. È una contingenza umana dove le logiche superomistiche lasciano il tempo che trovano e quelle umane invece restano, a partire da quelle più naturali: “Io ho paura di morire eh – raccontava Vialli – perché non so quando si spegnerà la luce cosa ci sarà dall’altra parte. Ma in un certo senso sono anche eccitato dal poterlo scoprire. Però mi rendo conto che il concetto della morte serve per capire e apprezzare la vita. L’ansia di non poter portare a termine tutte le cose che voglio fare, il fatto di essere super eccitato da tutti i progetti che ho, è una cosa per cui mi sento molto fortunato”. Niente petto in fuori dunque, anzi: “Mi sento molto più fragile di prima. La felicità dipende dalla prospettiva con la quale guardi la vita, che non ti devi dare delle arie, devi ascoltare di più e parlare di meno, migliorare ogni giorno, devi aiutare gli altri”. Già, niente forza, niente eroi, niente duelli. Tutta vita.

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