“La reintegrazione sociale non si fa dentro il carcere. Soprattutto per chi ha meno di 18 anni, si dovrebbe seguire un modello più ampio, che coinvolga anche la società esterna”. Susanna Marietti, responsabile dell’Osservatorio minori di Associazione Antigone, chiarisce subito: “Gli Istituti penali per minorenni fanno quello che possono”, ma spesso non basta per garantire la funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. “Se non si mettono in atto politiche del lavoro, economiche e sanitarie per la presa in carico di questi ragazzi al momento del fine pena, il lavoro che si fa all’interno viene vanificato”. Sul territorio italiano sono 17 gli Ipm: secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero della Giustizia, aggiornati al 15 dicembre 2022, ci sono 400 ragazzi e ragazze ospitati in queste strutture.

Chi sono i detenuti – All’interno degli Ipm ci sono 206 minorenni e 194 persone tra i 18 e i 24 anni. La legge stabilisce che dentro possono stare anche maggiorenni fino a 25 anni, se i reati in questione sono stati compiuti durante la minore età. Che non ci siano solo ragazzi sotti i 18 anni, spiega Marietti, è un dato positivo: “Più il ragazzo è giovane ed è considerato una personalità in evoluzione – e di conseguenza da educare al massimo – più il sistema si adopera per trovare sistemi alternativi al carcere”. Ma in cosa si differenzia un Istituto penale per minorenni da un carcere per adulti? “Per quanto riguarda la vita dentro la struttura, bisogna ricordare la possibilità di visite prolungate e soprattutto l’idea di custodia attenuata”, argomenta Marietti. Si tratta di due strumenti per evitare la totale segregazione dal mondo esterno. Tuttavia, “pochi istituti hanno fatto la sezione a custodia attenuata, dicendo che non c’era spazio a sufficienza”. Le due tipologie di delitti più frequenti tra chi è detenuto in un Ipm sono quelli contro il patrimonio e contro la persona. Ad esempio: furto, rapina, lesioni personali e omicidio. La rieducazione, quindi, è cruciale e passa anche attraverso la scuola, che – evidenzia Marietti – dovrebbe essere il più possibile all’esterno della struttura. “Se si può, senza troppo rischio per la sicurezza, lasciare un ragazzo in un contesto relazionale ordinario è meglio – ragiona – Metterli in un contesto di normalità e non di segregazione significa infatti non fare il doppio passaggio: isolare e poi integrare”.

Prima e dopo gli Ipm – La maggior parte di minori negli Ipm è in attesa del primo grado di giudizio. Una fotografia opposta a quella della posizione giuridica dei giovani adulti (18-24 anni) che si trovano nelle stesse strutture: i più hanno subito una condanna, anche definitiva, per un reato commesso durante la minore età. Un dato da leggere con attenzione: “In realtà è una buona notizia. Significa che quando un ragazzo o una ragazza ha una condanna da gestire, il sistema giudiziario è attrezzato per fare eseguire la pena in modo alternativo al carcere e agli Ipm”, chiarisce Marietti. Una volta che la condanna diventa definitiva, invece, “si riesce a mandarlo in comunità o ricorrere ad altre alternative”. Così, però, gli Istituti penali per minorenni diventano un luogo di transito. Il principale motivo di ingresso è l’aggravamento del comportamento di una persona che già si trovava in comunità: “Una delle sanzioni disciplinari è ricorrere all’Ipm per un massimo di un mese”, spiega Marietti. È un meccanismo previsto dal Codice di procedura penale, che però non è funzionale nemmeno per la corretta operatività degli Ipm: “È un danno per il carcere, perché deve gestire continui arrivi e inserimenti nel tessuto relazionale dell’istituto, senza nemmeno il tempo per i ragazzi di fare attività”. Inoltre, in questo modo – sottolinea Marietti – “si crea un danno anche al detenuto perché è una punizione disciplinare molto repressiva: noi di Antigone continuiamo a pensare che il sistema della giustizia minorile debba essere improntato alla rieducazione”.

Il mondo fuori – “Sulla carta il modello della giustizia minorile è buono, ma se si vuole davvero parlare di integrazione sociale si deve coinvolgere la società a un altro livello. Non si può pensare faccia tutto il carcere”. Secondo l’Associazione Antigone, è necessario intervenire su due piani: uno culturale e uno normativo. “In Italia il carcere è usato, anche per i minori, come strumento di neutralizzazione e di occultamento delle situazioni difficili da gestire altrimenti”. Risultato: la criminalizzazione della marginalità sociale ed economica. Per questo in carcere “si trovano anche i grandi criminali, ma la maggior parte sono persone disperate che il sistema non è capace di gestire all’esterno”. A partire dal 2018 esistono norme specifiche sugli Ipm, mentre prima le disposizioni generali sulle carceri venivano applicate anche a quelle minorili. “Ora che abbiamo un ordinamento penitenziario specifico per gli Istituti penali per minorenni, sarebbe bene metterci accanto un regolamento che spieghi come applicarlo”, conclude Marietti.

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