C’è chi è stupito, se non indignato, dalla rivolta delle comunità curde a Parigi la vigilia di Natale, dopo che tre militanti del movimento sono stati trucidati davanti al Centro Ahmet Kaya. Il disordine urbano è talvolta liquidato come ignoranza, ma non mancano occasioni in cui siamo noi a doverci chiedere se ci stia sfuggendo qualcosa.

Circa un anno fa ho appreso della morte, in Iraq, di un caro amico conosciuto in Italia. Si era avvicinato in auto a un checkpoint nel Kurdistan iracheno, e uomini in uniforme lo avevano crivellato di proiettili con tre suoi amici. Si chiamava Heval Shoresh e militava nel Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che si batte in Medio oriente per una società ecologica ed egualitaria dove le donne abbiano un ruolo di avanguardia e totale libertà. A sparargli erano stati i membri di una milizia locale, i Peshmerga, legati al Partito democratico del Kurdistan (Pdk) che da decenni impone il proprio potere sulla regione con il sopruso. Guidati da un potente clan tradizionalista legato al petrolio (i Barzani), i Peshmerga agiscono nel nord dell’Iraq in sintonia con il governo turco per reprimere chiunque cerchi un cambiamento sociale.

Quando Giorgia Meloni è volata in quei luoghi, qualche giorno fa, la stampa si è concentrata sui classici selfie in divisa con i militari. Pochi si sono chiesti con quali premesse e conseguenze, e con quale ruolo politico, l’esercito italiano sia in quell’area. Addestra proprio i Peshmerga del Pdk che hanno colpito Shoresh, i suoi amici e altri oppositori in quei territori, cooperando con la Turchia in un’offensiva illegale in territorio iracheno più volte denunciata dal governo di Baghdad (si sa che per i “sovranisti” il sovranismo vale a giorni alterni). Quell’offensiva è rivolta contro il Pkk che, inascoltato, denuncia l’uso di armi chimiche proibite dalle convenzioni internazionali.

È inascoltato perché, pur combattendo il jihadismo davvero e per necessità, e non a parole e per propaganda, è inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche su pressione della Turchia e avversato dai Peshmerga, mercanti di petrolio con cui tutti i paesi importatori tengono ad avere buoni rapporti. Dietro ai selfie di Meloni si cela la pedissequa continuità di una politica estera che, in Medio oriente, sostiene le politiche filo-islamiste della Turchia – membro Nato – contro i movimenti democratici e di liberazione delle donne (la mano del sovranista che sente parlare di islamismo, infatti, può correre immediatamente al portafogli; e che sia islamica o cristiana, e maschile o femminile, la destra è sempre destra. Si badi: la sinistra dem che la insegue, pronta eventualmente a legittimare crimini islamisti contro i lavoratori in cambio di mazzette, non ha mai eccepito su tutto questo).

Quest’ipocrisia non è molto meno pronunciata in Francia. L’assassino del 23 dicembre ha fatto fuoco contro un centro curdo, un ristorante curdo e un barbiere curdo uccidendo tre militanti politici vicini al Pkk. La rapidità con cui le autorità hanno escluso la pista del crimine su commissione, e persino il carattere politico dell’attacco, ha destato – in chi conosce il contesto politico – quanto meno qualche sospetto. Stava per iniziare in quel luogo un’assemblea di donne in vista del decimo anniversario dell’assassinio, sempre a Parigi, di altre tre militanti curde, freddate in modo analogo il 9 gennaio 2013. L’assassino di allora, deceduto in carcere, si disse mosso da odio personale, ma le inchieste francesi lo misero in relazione con agenti turchi grazie a intercettazioni ambientali che, nonostante ripetute richieste, non sono mai state rese pubbliche.

I fatti si ripetono? Può trattarsi di una coincidenza, ma la domanda è: se non lo fosse, sarebbe disposto uno stato europeo a fare giustizia, nell’interesse degli ultimi, contro un potente e redditizio alleato? Il ministro dell’Interno turco Soylu ha dichiarato il giorno dell’attacco: “Erdogan non si fermerà ai terroristi in Turchia, li cancellerà ovunque nel mondo”. Può essere anche questa una coincidenza, ma un popolare giornalista curdo, Amed Dicle, si è chiesto sarcasticamente se tali dichiarazioni saranno inserite nei file dell’inchiesta.

Il complottismo è la riduzione ossessiva di dinamiche complesse a spiegazioni semplicistiche, prive di fondamenti empirici concatenati tra loro in un’argomentazione che rispetti le regole della logica. I complotti, invece, sono possibilità storiche e, talvolta, fatti materiali che è meglio appurare. Nessuno meglio di noi italiani lo sa. Argine contro il dilagare dei complottismi è allora la capacità delle società di rendere davvero giustizia. Tutto lascia pensare che oggi questa capacità non vi sia, e la rabbia dei curdi – e di molti altri – si origina da questa consapevolezza.

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