“Da un anno non posso entrare nella mia casa neanche per prendere i vestiti”. È la condizione di una decina di famiglie che abitava nei pressi di via Trilussa, a Ravanusa, dove uno scoppio, avvenuto nel dicembre dello scorso anno, uccise nove persone e il piccolo Samuele, ancora nel grembo della madre, che sarebbe dovuto nascere qualche giorno più tardi. I lavori di rimozione dei detriti, che dovevano cominciare lo scorso luglio, sono iniziati in ritardo e nessuno ha avuto la possibilità di rientrare nelle proprie case, dovendo così trovare sistemazione da parenti, amici e case in affitto.

Circa 40 famiglie, di cui oltre la metà proprietarie di seconde case e che quindi rientrano in Sicilia solo per le vacanze, però potrebbero non tornare mai più nelle proprie abitazioni: secondo il progetto da 24 milioni di euro redatto dall’ufficio tecnico del Comune, nell’opera di ricostruzione post-scoppio verranno abbattute 48 case per trasformare il vecchio centro storico di Ravanusa in un “polmone urbano”.

Di questi immobili però, secondo gli inquilini, molti sarebbero in ottime condizioni e potrebbero essere salvati in quanto non colpiti dall’esplosione e quindi senza danni. Gran parte dei cittadini vuole schierarsi perciò contro il progetto che vuole la demolizione e chiede di rientrare a casa: “Siamo contro il progetto che voleva questo quadrilatero raso al suolo e speriamo venga rivisto il progetto – ha spiegato Silvia Sazio, avvocata dell’associazione “10 come noi” – ci siamo opposti alla delibera ed entro fine anno verrà approvato in Consiglio comunale il piano triennale delle opere pubbliche, tra cui ci sarà questo progetto. Vogliamo che non entrino a far parte del progetto quelle abitazioni che noi riteniamo integre”. Fra pochi giorni sarà redatto il piano triennale e gli abitanti sperano in una modifica.

“È un paradosso – spiega il sindaco Carmelo D’Angelo – gli abitanti che hanno l’intenzione di non avere una nuova casa possono salvare le loro abitazioni ma devono presentare le certificazioni e la documentazione che permetta di non abbattere delle case che si trovano in zona R4, ad elevato rischio di dissesto idrogeologico e questo è molto difficile, perché gli uffici oggi raramente concedono agibilità in zone che si trovano in territorio a rischio dissesto (R4). Se riescono a dimostrare che le loro case sono agibili e abitabili non ci sono problemi a non includerle nel progetto di riqualificazione e delocalizzazione che prevede la ricostruzione in altra zona.

Lo scontro è però aperto nonostante lo spiraglio lasciato dal sindaco. Il tempo infatti stringe perché prima della fine dell’anno il progetto potrebbe passare in consiglio comunale ed essere inserito nel piano triennale delle opere pubbliche che prevede la demolizione e la costruzione di un parco urbano, oltre alla delocalizzazione e la ricostruzione delle abitazioni distanti: “Il centro dello scoppio non è più di 150 metri quadrati – spiega Salvatore Palumbo, uno degli abitanti delle case da demolire – non capiamo perché bisogna abbattere tutte le case, l’ordinanza del 2021 era valida per la sicurezza ma ora è finito tutto. Agiamo per un piano di riqualificazione e non per l’abbattimento”.

Secondo il primo cittadino però bisogna fare in fretta: “Abbiamo immediatamente redatto il progetto e lavorato per restituire una casa a chi non ce l’ha più. Se la gente non decide cosa fare rischiamo soltanto di dilatare i tempi della ricostruzione, perdendo ancora tempo tutto potrebbe slittare”.

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