“Solo quando l’epidemia è sotto controllo l’economia può essere stabile, e la vita delle persone pacifica. Un allentamento della prevenzione e del controllo del virus aumenterebbe inevitabilmente il rischio di infezione tra le persone vulnerabili”. Appena un paio di mesi fa l’ufficialissimo People’s Daily respingeva così le perplessità dell’Occidente, difendendo a spada tratta la Zero Covid, la rigidissima strategia sanitaria basata sulla pretesa di assoluto controllo del virus. Oggi non più. È finita l’epoca dei test di massa, dei continui lockdown, del contact tracing, dei codici salute, e della quarantena centralizzata. A inizio dicembre, Pechino ha fatto improvvisamente marcia indietro optando per accettare quanto consigliavano da tempo gli esperti stranieri: ovvero lasciare che l’infezione faccia il suo corso per raggiungere l’immunità di gregge.

La Cina ha avuto oltre due anni per prepararsi a questo momento. Eppure le immagini rimbalzate sui social network – malgrado il filtro della censura – raccontano un paese in serio affanno: ospedali pieni, personale medico decimato, mancanza di medicine, e morti. Quanti non è chiaro. Le statistiche ufficiali contano circa 5000 casi sintomatici e meno di dieci decessi dal 4 dicembre. Ma le file dei carri funebri e le testimonianze dei parenti suggeriscono si tratti di un bilancio gravemente sottostimato. Secondo il Financial Times, un’azienda funebre di Pechino sostiene di aver cremato 30 malati di Covid in un giorno solo. Martedì la Commissione sanitaria nazionale ha chiarito che solo i pazienti che muoiono per insufficienza respiratoria saranno conteggiati nel bilancio ufficiale delle vittime del Covid; non chi aveva malattie croniche pregresse, la principale causa di morte attribuita alla variante Omicron. Secondo diversi studi, senza una rapida espansione della campagna vaccinale, la Cina potrebbe fronteggiare un milione di morti entro la fine del 2023. È una corsa contro il tempo. E secondo quanto riferito dalle autorità sanitarie in un incontro a porte chiuse, ha riportato il Financial Times, sono 250 milioni le persone che si sono infettate nei primi 20 giorni di dicembre.

Infezioni e vaccini Il problema sta nell’insufficienza delle terapie intensive, nella carenza dell’assistenza medica fuori dalle grandi città, e soprattutto nel basso livello di immunizzazione. Mentre il 90% della sua popolazione è stata completamente vaccinata, meno della metà degli over 80 – gli individui più fragili- ha ricevuto la terza dose. Senza contare la controversa decisione di puntare tutto sui composti cinesi, che hanno un tasso di efficacia del 44-94% con due dosi laddove BioNTech assicura una protezione del 75-96% per tutte le fasce di età. Solo mercoledì la Germania è riuscita a spedire in Cina un primo lotto di vaccini BioNTech, per il momento destinati esclusivamente agli expat tedeschi. Tenendo conto degli spostamenti per il capodanno lunare, secondo Wu Zunyou, capo epidemiologo del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, la Cina affronterà altre due ondate di infezioni – oltre a quella attuale – tra la fine di gennaio e la metà di febbraio, e tra la fine di febbraio e la metà di marzo. Molto dipenderà dalle amministrazioni locali, chiamate a interpretare e adattare ai vari contesti le regole diramate dal governo centrale. Uno scenario che preoccupa l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). L’Oms ha bisogno di informazioni più dettagliate sulla gravità della malattia, sui ricoveri ospedalieri e sui requisiti per il supporto in terapia intensiva, ha affermato ieri il capo dell’organizzazione, Tedros Adhanom Ghebreyesus, mettendo in discussione i precedenti pronostici per il 2023. Soprattutto nell’eventualità (ancora piuttosto remota) che dall’ultima ondata dovessero svilupparsi varianti più aggressive.

La stampa statale cinese ostenta ottimismo. Dando voce ad alcuni esperti, il quotidiano in lingua inglese China Daily un paio di giorni fa prevedeva un ritorno alla normalità già dalla prossima primavera. Tra la popolazione prevale invece confusione, speranza, e talvolta rabbia. “Queste statistiche pubblicate sono ridicole, sono così false…”, scrive un utente su Weibo. Mentre qualche duro e puro continua a giustificare la scelta del governo, complessivamente a spiazzare i cittadini sembrano soprattutto le tempistiche travolgenti della riapertura. Non casuali d’altronde. Se i segni di un allentamento erano già nell’aria da tempo, è indubbio che la vera molla siano state le proteste del 27 novembre, quando centinaia di persone hanno manifestato nelle principali città cinesi per chiedere la fine della politica Zero Covid. Nessuno tuttavia si aspettava (e probabilmente auspicava) una reazione tanto scomposta.

Il profitto sacrifica i fragili? – Dai palazzi del potere affiora chiaramente la volontà di riportare al centro dell’agenda politica l’economia, duramente colpita dalle restrizioni sanitarie. Anche a costo di sacrificare la popolazione più anziana. Le cosiddette proteste dei “fogli A4”, portate avanti soprattutto da studenti, hanno scoperchiato un malcontento giovanile che ha radici nella disoccupazione elevatissima e in un futuro sempre più incerto. La nuova strategia business-oriented di Pechino rischia però di mettere in discussione tutta l’impalcatura retorica costruita dal partito fin dal 2020: la superiorità del modello cinese si basava sulla capacità di salvare più vite umane delle democrazia occidentali, che invece avevano sacrificato la popolazione seguendo la logica del profitto. Un obiettivo effettivamente raggiunto anche al netto dei dati ritoccati. Ma, in un battibaleno, si è passati dalla “guerra del popolo”, uno sforzo collettivo coordinato dall’alto, a un duello individuale con la malattia: i cittadini sono ora chiamati ad assumersi in prima persona la responsabilità della propria salute. Un voltafaccia che rischia di minare la credibilità dell’establishment, fino a l’altro ieri incline a gestire l’emergenza con approccio protettivo e paternalistico.

Archiviato il mantra della Zero Covid, la nuova parola chiave è “ottimizzare”, ovvero – come spiega il ministero degli Esteri – “trovare un equilibrio tra prevenzione dell’epidemia e sviluppo socio-economico.” Missione non facile. La Banca Mondiale ha rivisto al ribasso le stime per la crescita cinese nel 2023 dall’8,1% al 4,3%. A Chongqing e nella provincia dello Zhejiang i dipendenti pubblici con sintomi lievi sono invitati a lavorare anche se positivi. Le multinazionali si ingegnano come possono continuando a operare a regime ridotto. Naturalmente, il danno reputazionale non riguarda solo l’opinione pubblica cinese. A livello internazionale la storica stabilità interna e prevedibilità dei processi di policy making sotto la guida del partito unico è stata considerata per decenni uno dei fattori ad aver reso la Cina un hub produttivo di importanza mondiale. Non ci sono ancora i segni di un sostanziale ripiegamento. Ma dagli ultimi riscontri delle varie camere di commercio straniere traspare un diffuso pessimismo sul futuro. Circa il 49% delle aziende tedesche intervistate di recente ritiene che l’attrattiva della Cina sia diminuita rispetto ad altri mercati. Solo il 51% prevede di investire ulteriormente nel paese entro i prossimi due anni. Nel 2021 a dire lo stesso era stato il 71%.

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