In Iran la violenza del regime non conosce limite. Usa le intimidazioni, gli arresti, le esecuzioni, e persino lo stupro per costringere a indossare il velo e reprimere così il dissenso. L’ultimo caso, svelato dalla ong Center for Human Rights in Iran e riportato dal New York Times, è quello di Masooumeh, identificata sul giornale americano col solo nome. Era una ragazza di 14 anni. Viveva in un quartiere povero di Teheran e, in segno di protesta, aveva deciso di togliersi il velo a scuola. Le telecamere di sorveglianza l’hanno registrata, è stata individuata e arrestata dalla polizia morale. Poco dopo è stata portata in ospedale a causa di una grave emorragia vaginale. E lì è morta. Sua madre aveva dichiarato di volere denunciare quanto accaduto, poi è scomparsa. Sono violenze che annegano nel silenzio e nella paura di subire conseguenze irreversibili, con le autorità della Repubblica islamica che non dà segni di allentare la sua morsa repressiva. La ferocia è progressivamente aumentata con le proteste di settembre dopo la morte di Mahsa Amini: da lì centinaia di arresti, morti e finora – almeno ufficialmente – più di una decina di condannati a morte. Alcuni di loro, tutti ragazzi con poco più di 20 anni, sono già stati uccisi dal regime e solo oggi il capo della magistratura iraniana Gholamhossein Mohseni Ajaei ha chiesto che vengano eseguite “senza indugio” le condanne “definitive” dei manifestanti. “Le condanne emesse per persone che hanno commesso reati gravi in qualsiasi area, sia di sicurezza che non, devono essere documentate e motivate oltre che essere un deterrente”. E, parlando nella riunione del Consiglio supremo della magistratura, ha sottolineato che per “una sentenza definitiva non dovrebbe esserci alcun ritardo nell’esecuzione”.

Nel mirino delle autorità anche gli account social dei detenuti, scrive Cnn, e le aziende tecnologiche non sembrano attrezzate per evitarlo. L’emittente americana ha raccolto la testimonianza di una detenuta nella famigerata prigione di Evin a cui durante gli interrogatori in carcere sono state presentate come prove le sue chat con amici. Negin (nome usato per proteggere la sua sicurezza), una delle centinaia di manifestanti detenuti per le proteste di questi mesi, ha raccontato di essere stata accusata dalle autorità iraniane di gestire un gruppo di attivisti anti-regime su Telegram. Lei nega l’accusa e ha detto di avere “alcuni amici” che sono stati prigionieri politici: “Mi hanno messo davanti le stampe trascritte delle mie conversazioni telefoniche con questi amici”, ha detto, “e mi hanno interrogato su quali fossero i miei rapporti con loro”. “Mi hanno detto: “Pensi di poter uscire viva da qui? Ti giustizieremo. La tua sentenza è la pena di morte. Abbiamo le prove, siamo al corrente di tutto”, ha riferito. Negin ritiene che gli agenti iraniani abbiano violato il suo account Telegram il 12 luglio, quando si è resa conto che un altro indirizzo IP vi aveva avuto accesso. Mentre lei era in prigione, ha detto, le autorità iraniane hanno riattivato il suo account Telegram per vedere chi cercava di contattarla e rivelare la rete di attivisti con cui era in contatto. Oltre alle “perquisizioni” degli account social, per gli utenti risulta sempre più difficile accedere ai siti internazionali, in particolare quelli col dominio .com. Sorvegliati, arrestati, condannati a morte: ma nonostante la repressione gli attivisti non si fermano e da ieri hanno proclamato altri tre giorni di proteste e scioperi nazionali che dureranno fino al 21 dicembre.

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