Riceviamo e pubblichiamo una lettera che testimonia come le violenze psicologiche sulle atlete e sugli atleti non riguardino solo la ginnastica ritmica, ma tutti gli sport. Il racconto di quanto capitato ad A. è la prova di come alcuni tecnici siano ossessionati da risultati e ribalta mediatica, dimenticando la salute e le esigenze (anche psicologiche) dei giovani che hanno la responsabilità di allenare. Se avete altre testimonianze simili, potete scrivere la vostra esperienza a redazioneweb@ilfattoquotidiano.it

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A., nostra figlia, faceva atletica con una società di lunga tradizione, con dirigenza e allenatori ben inseriti nel cuore della federazione. Va tutto bene finché non scoprono che è forte nella corsa di resistenza, ma lei ha le idee chiare, anche se ha solo tredici anni. Lo dice continuamente a tutti: ama correre, ma non vuole ancora specializzarsi. Troppe discipline nell’atletica da sperimentare, per lei che è sempre stata curiosa di provare tutti gli sport. Ma le pressioni cominciano, perentorie, di pari passo con i ritagli di giornale esposti e le farneticazioni sul punteggio di certe sue prestazioni. Arriva l’anno del cambio di categoria, da ragazza a cadetta, dobbiamo firmare e vincolarla per due anni alla società. Un lungo colloquio con dirigenza e allenatori. Poniamo una condizione: sarà lei a decidere quando specializzarsi. Ci raccomandiamo di evitarle pressioni, di tenere in considerazione l’aspetto ludico e i desideri di nostra figlia, presente al colloquio. Dopo tanti discorsi e promesse, pure registrati (perché non si sa mai), firmiamo. Del resto il campo di atletica è vicino a casa e lei ha le sue amicizie, coltivate in tre anni.

Di qui in poi non c’è più pace. In barba agli accordi, provare altre specialità, velocità, lanci, salti, diventa una battaglia. Musi e ripicche meschine dell’allenatrice che vive come un affronto personale il fatto che una bambina non si dia anima e corpo alla specialità da lei allenata. Dirigenza e allenatori, smaniosi di risultati e articoli sui giornali, attaccati come un cane sull’osso. Continuamente redarguita per imporle il percorso atletico che hanno deciso. Condotta in angusti uffici per discorsi interminabili a porte chiuse, senza il nostro permesso. Anche infortunata, deve allenarsi e gareggiare, soprattutto se c’è qualche gara che conta. Alimentazione, abbigliamento, tempo libero: appunti su tutto, con brutte maniere e sufficienza. Rivendichiamo il rispetto degli accordi e della sua crescita fisica e psicologica con discussioni, lettere e messaggi. Risposte univoche, maniacali. Scrivono che per finalizzare al meglio la competizione nulla deve essere lasciato al caso. Chiedono resoconti minuziosi dei giorni lontano dal campo, vagliano ogni attività ricreativa di famiglia, scrivono che sono giorni di recupero che devono monitorare. A tredici anni!

In un’escalation di discussioni, infortuni e mancanze, arriviamo a settembre 2021. Fra un mese ci sono i campionati italiani e A. ha i minimi per partecipare in tre specialità: 1000m., 2000m. e 1200 siepi, si tratta di mezzofondo, quello che vogliono. Ma le strigliate continuano, le dicono di non pensare, che pensa troppo e che deve avere fiducia. Non pensare, non parlare e assecondarli, lo chiamano fiducia nel loro progetto, prematuro e imposto. Vengono meno a tutto: rispetto dell’atleta, del ruolo dei genitori, accordi. Non sentono ragioni, forti del fatto che è vincolata per due anni. Il 6 settembre 2021 la situazione gli sfugge di mano. Allenatrice e direttore sportivo trascinano nostra figlia in ufficio anche se lei dice che non vuole, che è stufa di discorsi. Viene addossata al muro, urla e offese con la faccia a pochi centimetri dal suo viso. Lei grida che devono parlare con i genitori, di chiamarli, che vuole andare via, allora il direttore aguzzino mette con impeto la mano sulla maniglia della porta già chiusa, non può uscire. Finalmente la mollano, l’allenatrice, beffarda, le dice “Corri, così ti sfoghi”.

Ci telefona e racconta che sembravano impazziti. Arriviamo in dieci minuti, nostra figlia vaga, sola, attorno agli spogliatoi. Loro sono tornati alle normali occupazioni, come se niente fosse. Ci dicono che se vogliamo parlare, devono prima finire le loro cose. Quando finalmente arrivano, chiediamo come hanno potuto oltrepassare certi limiti, ci gridano “ignoranti”. Due giorni dopo, senza nessun preavviso, scrivono che A. è sospesa dall’attività agonistica e di allenamento fino al 31 dicembre 2021. Motivazione: i fatti accaduti il 6.9 integranti accuse e ingiurie, che solo loro hanno pronunciato! 14 anni, sbattuta fuori da tutto, di colpo: dal campo, dagli allenamenti, dall’atletica e dai compagni, dalle gare imminenti. A giorni deve pure cominciare un nuovo ciclo scolastico. Telefoniamo più volte, mandiamo messaggi. Ci eliminano dalla chat dei genitori. Non risponde nessuno. Telefoniamo ad un allenatore di altra società che gestisce la pista. Ci suggerisce di “Star sitti e boni e sperar che a fine anno i te assa andar via”. Rispondiamo che vogliamo andare in questura. Ci informa che se ti rivolgi alla questura c’è il rischio radiazione, bisogna usare la giustizia sportiva.

Scriviamo lettere su lettere, al presidente della società, agli organi di competenza, territoriali e centrali, chiedendo di considerare che l’atleta è poco più che bambina. Neanche un cenno di riscontro. Allora andiamo da un avvocato, con il nostro carico di lettere, messaggi, registrazioni, foto. Dal 1° febbraio 2022, A. è libera da vincolo e liberatoria, perché la società non si è più manifestata, quindi ha perso ogni diritto, anche l’indennità di preparazione. Due società diverse hanno presentato tre richieste di iscrizione. Mai accolte. Dicono che sanno chi è la ragazzina, è quella che ha denunciato. Scrivono di accordarsi con la vecchia società, la quale chiede soldi. Ci sono di nuovo i campionati italiani e nostra figlia quest’anno vorrebbe proprio farli. Decidiamo di pagare se ci dicono quale legge lo prevede. Di nuovo, pec sopra pec, alla società, agli organi preposti, territoriali e centrali, chiedendo cortesemente di illustrarci il fondamento normativo di questa richiesta di denaro. Parecchi mesi sono passati, nessuna risposta. L’avvocato ci scrive della sua grande delusione umana e professionale davanti a questo muro di gomma, mai gli è capitato. L’hanno tenuta così stretta tra le grinfie, che non accettano sia libera, come in certi rapporti malati.

Da un anno fa atletica con altro ente, altra società, altra provincia. Sui campi, sulle strade, sulle piste, sui palchi, sui podi, molti operano con coscienza. Ma c’è anche chi si piega alle richieste, alle telefonate, per soggezione o interesse. E allora capita che anche se vince non viene premiata, pettorali che non si trovano, il nome che sparisce dalla classifica dopo aver fatto la gara. Di recente, pure una borsa di studio non assegnata, contro ogni evidenza dei fatti e senza dare spiegazioni. Denunciare quando un figlio vuole ancora praticare quello sport diventa un calvario perché possono escluderlo e tormentarlo. Qualche volta abbiamo pensato di mandare tutto a quel paese, e toglierla dall’atletica, così non possono più cercare di mortificarla. Ma lei vuole continuare. Quest’anno le vittorie sono state tante e, al di là di premiazioni e classifiche, valgono doppio, perché le ha vinte con le gambe e con il cuore, ma soprattutto con il discernimento: per nostra figlia l’atletica non c’entra nulla con quella gente là, non è rimasta intaccata, l’atletica è sua.

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