Ficcarsi nei guai per morbosa attrazione, il collante ideale per coltivare inimicizie, odio e malignità in chi non ne comprese l’ascetica vita spericolata, eremitica e proletaria, un tabù nel fango del dio pallone dove la catarsi nell’incubo del risveglio gli destò la visione illuminante, rivoluzionaria, iperbolica e balorda: “l’unica possibilità di incidere è fare il rompicoglioni”.

Anti-divo per eccellenza, ricercato e rimosso, il gauchiste Maurizio Montesi il giocattolo calcio avrebbe voluto spezzarlo alla radice del sistema marcio (“significa affondare il bisturi alle fondamenta della piramide”), ma spenti i riflettori del grande circo, da Roma finì in fuga all’estero, evitata l’amputazione di una gamba dopo i violenti scontri con Cagliari e Sambenedettese. Da qui la parabola nell’implosione e l’inizio del mistero, damnatio memoriae col vento che soffia ancora: amicizie nel giro di Walter Rossi e una sorella arrestata nelle Brigate Rosse, a soli 25 anni appese le scarpe al chiodo dopo quelli impiantati con placche e viti tra tibia e perone.

Latitante alle Canarie, riuscì a farla franca sull’isola, schivata nella prescrizione una condanna a 4 anni per altrettante tonnellate di hashish, dal suo veliero sprofondate nei fondali di Ostia, venti metri sotto il mare (1992). In fondo, per cocaina ad uso personale, un mese a Regina Coeli l’aveva già scontato (1981), come la condizionale a quattro giri di calendario per omicidiocolposo – nel 1978 investito un pedone sulle strisce di Via della Conciliazione. Col tempo pure di un arresto fantasma, smentito, ma millantato dalla Polizia di Londra nel 1984. “Non sono una vacca da mercato. Ho paura che questa vita risucchi anche me”.

Allergico agli autografi, baffi e capelli lunghi a centrocampo, per Enrico Deaglio fu “uno dei pochi ad aver voluto conservare dignità”: palmares da polmoni generosi nei moduli a rombo, uno scudetto Primavera lo vinse con l’amico bomber Bruno Giordano, una settantina di presenze tra i professionisti e zero reti all’attivo, promosso in A con l’Avellino e tre stagioni di fuoco con la Lazio più maledetta, tra scandali, l’inferno della serie B e l’uccisione in curva nord di Vincenzo Paparelli.

Ma M.M. (acrostico narrativo del nome) comunque non è morto e vive ora nelle pagine de La scomparsa del calciatore militante. Una storia di pallone, politica e tradimenti (Milieu edizioni), pasoliniana pennellata controcorrente dell’inviato de La7 Guy Chiappaventi, autore di un romanzo neorealista sull’anima grigia della storia laziale.

“Io sono rimasto l’infame, il traditore. Nessuno si ricorda di come giocavo.” Il libro è una non-fiction novel, tra finzione e realtà riavvolge il nastro su trame intrigate, più umane che pallonare. “Il tifoso è uno stronzo. Fa il gioco del sistema”. Per dare voce all’anticonformista sparito nel nulla, Chiappaventi s’immerge in M.M. simulando il metodo Stanislavskij, lode e gogna alla ‘zecca’ tutto pensiero e azione (la politica “è qualcosa di più, è darsi da fare, agire”), tra Lotta Continua e il Campo Maestrelli (“il calcio è una fortuna che mi permette di campare senza lavorare”). Si diceva sputasse sul piatto in cui mangiava, ma in realtà ad M.M. il caviale piaceva masticarselo avariato, stuzzicando il gusto del cibo scaduto: “il problema delle scommesse clandestine esiste, è uno dei fattori fondamentali per cui il calcio sta diventando un fenomeno da baraccone, seguendo l’andamento del Paese”.

Sindacalista mancato con Paolo Sollier e amico dei Mauro (Manzoni e Tassotti) da borgata San Basilio, nel Totonero 1980 Montesi fu il supertestimone, il principale accusatore di Pino Wilson da Darlington, manco fosse Al Capone catturato nello spogliatoio di Pescara per un filotto di partite chiacchierate: “non sono disposto a fare da capro espiatorio per salvare quei golden boy di 23 anni che rappresentano l’intero patrimonio di qualche società,” replicò Wilson negando l’addebito infame.

Tra bocche cucite, complicità e patti di sangue mai dichiarati, nella tomba del libero numero 4, accanto al Maestro c’è poi finito il grande segreto: quando il fruttivendolo del Vaticano Massimo Cruciani s’aggirava nelle stanze dell’Hotel Jolly 2, non fu certo il capitano di Chinaglia ad offrire a M.M. combine e 6 milioni di lire per perdere col Milan stella sul petto. Pactum sceleris.

“Potrei farla pagare a lui, potrei accollare a lui tutta questa vicenda, è a fine carriera, il male minore per tutti”. Fraudolento e ingestibile, l’affaire era troppo grande per uscirne pulito anziché schiacciato: dietro quote al picchetto e martingala, sugli allibratori aleggiava infatti l’ombra di camorra e banda della Magliana, mentre Artemio Franchi, ex presidente Uefa e al tempo vertice Figc, nel 1981 sbucò dalla lista P2 del venerabile Licio Gelli.

Nei processi farsa, sportivo e penale, poi omissioni, minacce e omertà contribuirono al saldo sensazionale, tra sabbie mobili, assegni incassati e retroscena giudiziari come sempre all’italiana, “assolti perché il fatto non sussiste” il verdetto, gli azzurri impegnati in Uruguay nell’inquietante Coppa d’Oro. “Ho aspettato che il tempo mettesse a posto le mie pendenze e poi sono tornato”.

Quando il calcio perse definitivamente l’innocenza, Lotta Continua profeticamente aveva titolato: “Finirà tutto con l’incastro di Montesi?”. Quarant’anni più tardi, Chiappaventi è magistralmente riuscito a disincastrarlo, solcato il percorso per svelarne l’enigma in una drammatizzazione di disgraziati fatti, realmente accaduti. Quando Montesi non era più Wilma.

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