L’idea del ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, di sostituire le sospensioni con i lavori socialmente utili divide il mondo degli educatori. Se da una parte c’è chi come Paolo Crepet o Alberto Pellai non esclude la proposta del professore milanese, dall’altra ci sono pedagogisti come Daniele Novara e Raffaelle Mantegazza che trovano fuorviante far passare il messaggio che occuparsi degli altri è una punizione. In realtà, da oltre un decennio, nello statuto degli studenti delle scuole medie e superiori, sono previste una serie di sanzioni verso gli studenti che commettano atti indisciplinati, forme di violenza o procurino danni alla scuola. In seconda battuta, ogni istituto approva un regolamento disciplinare e in caso di applicazione delle sospensioni a decidere non è il solo dirigente scolastico ma l’intero consiglio di classe.

Già in passato, in alcuni casi, sono stati assegnati dei lavori socialmente utili ai ragazzi anziché le sospensioni sulle quali tutti – ministro compreso – pensano che sia arrivato il tempo di archiviarle. Il tema “lavori socialmente utili”, tuttavia apre una serie di riflessioni che divide la comunità educante. A definire “agghiacciante” la proposta dell’inquilino di viale Trastevere è il pedagogista della “Bicocca” Raffaele Mantegazza che in questi giorni ha pubblicato “Fuga” per AnimaMundi edizioni: “Il lavoro socialmente utile dovrebbe essere un desiderio da parte dei ragazzi. L’idea che diventi qualcosa di obbligatorio e punitivo non può andar bene. Certo le sospensioni non servono ma bisogna lavorare a monte per creare un clima in classe e a scuola dove il gruppo impara ad auto-regolamentarsi. E’ un lavoro lungo e faticoso ma che responsabilizza anche alla vita adulta”. Mantegazza proietta questo suo pensiero ad un ambito che va oltre la scuola: “Solo così un giorno se accadrà qualcosa nel mio quartiere anch’io sarò responsabile e non attenderò che sia la polizia municipale ad intervenire”.

Dello stesso parere il noto pedagogista Daniele Novara, autore di “La manutenzione dei tasti dolenti” (Rizzoli): “La scuola che punisce è una scuola che fallisce. Nei momenti critici servono interventi regolativi che devono essere la vita stessa della scuola. I bulli non sanno litigare: non si tratta di punirli ma creare progetti educativi. Il sistema delle sospensioni è equivoco perché crea respingimento nei confronti degli alunni che hanno più bisogno. Le sospensioni si sono rivelate inutili ma sostituirle con il lavoro socialmente utile significa trasformare il darsi da fare per gli altri in una punizione; rischia di risultare un boomerang terribile per la scuola. Tutti gli alunni dovrebbero fare dei lavori socialmente utili nella vita quotidiana della scuola”. Non cambia la musica parlando con lo psicologo Gustavo Pietropolli Charmet: “E’ un discorso vecchio. La sospensione è la condanna a morte dello studente ma un lavoro socialmente utile ha un senso se è accompagnato, se fatto in gruppo, se ha fini sociali, se è commentato da educatori competenti”. La soluzione per lo psicologo è dare più scuola , non toglierla. Un esempio è l’esperienza fatta da lui con il maestro Marco Rossi Doria, in un istituto di Trento dove avevano creato una “zona gialla” per chi aveva compiuto qualche atto illecito: “Lì trovavano chi li accudiva, chi li seguiva, chi parlava con loro”.

Più morbido Alberto Pellai, psicoterapeuta: “Un percorso di lavoro socialmente utile va integrato con il percorso scolastico. Devono essere a misura dei ragazzi. Se uno studente danneggia la scuola può essere utile fargliela riparare o far qualcosa per il proprio istituto ma se abbiamo davanti un caso di cyberbullismo è inutile mandarlo a fare l’imbianchino”. Dalla parte di Valditara si schiera, invece, Paolo Crepet: “La scuola deve prevedere premi e correzioni. Sospenderli non serve a nulla ma i lavori socialmente utili devono essere “scolastici”. Non possiamo pensare di mandare i ragazzi a raccogliere le siringhe in un parco. E’ comunque positivo che si sia aperto un dibattito su questo tema perché è da troppo tempo che non c’è una discussione seria sulla questione”.

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