Mio padre ha fatto il medico per più di 40 anni e, dalle prime guardie mediche fino ai tanti giorni passati in ospedale, ne ha viste davvero tantissime; ma se gli chiedevi di raccontarti un episodio che lo aveva colpito, prima o poi arrivava sempre a parlare di quando era a Cagliari ad assistere ad una seduta di ippoterapia dove un ragazzo quasi adolescente, affetto da autismo e che mai aveva parlato, faceva le sue ore in sella ad uno splendido cavallo. Mio padre era seduto sugli spalti attorno alla pista e, accanto a lui, sedeva in silenzio il padre del ragazzo, che guardava suo figlio con un misto di apprensione e speranza.

Alla fine di quell’ora di ippoterapia, una delle tante che il ragazzo aveva fatto, accadde qualcosa di importante; sceso dalla sella andò verso suo padre e, guardandolo, gli disse semplicemente: “papà”. Era la prima volta che accadeva, era la prima volta che quel padre sentiva la voce di suo figlio pronunciare quella parola. Inutile dirvi quale fu l’emozione, non solo dell’uomo, ma anche di mio padre e, ammetto, anche mia nello scrivere ora queste cose.

Nel corso degli anni – la lezione di ippoterapia che vi ho raccontato avvenne se non erro negli anni 80 o 90 – si è scoperto qualcosa in più sull’autismo, oggi soprattutto se ne parla di più e con qualche cognizione maggiore, ma la strada da fare è ancora davvero tanta.

Il racconto di mio padre, però, mi è sempre rimasto nel cuore e per questo motivo mi ha colpito infinitamente un incontro che ho avuto la fortuna di fare pochi giorni fa. Mi trovavo a Cagliari e, quasi per caso, ho scoperto che la sera ci sarebbe stata la presentazione di un libro dal titolo curioso: Tennis Aut. Quattro scambi tra tennis e autismo (Europa Edizioni, 198 pp, 14,72 euro). A firmarlo era un nome noto a chi ha frequentato i tennis club della Sardegna, Andrea “Bubu” Melis, a lungo uno dei più conosciuti maestri di tennis della città. Era da tempo che non lo vedevo e, al netto dell’aver guardato da lontano qualche sua lezione, non ci eravamo mai presentati o incontrati davvero, ma quel giorno, prima di entrare in sala, ci siamo seduti ad un tavolo e abbiamo chiacchierato a lungo. Del tennis, certo, ma soprattutto della sua famiglia, di Lucrezia, la sua figlia maggiore e di Federico, il minore. Anche lui affetto da autismo.

La diagnosi, per Federico, è arrivata quando aveva circa 18 mesi: Disturbo pervasivo dello sviluppo. Una serie di parole che, per la famiglia di Bubu, hanno significato un vero e proprio stravolgimento. La prima, lecita reazione è stato lo sconforto, il chiedersi “perché proprio a mio figlio” e, ammette con enorme sincerità, accorgersi di trascurare Lucrezia (che allora aveva appena 6 anni) per concentrarsi solo su Federico.

Ma anche un enorme senso di colpa nei confronti di quel figlio cui sentiva di aver fatto un torto, fino ad un giorno in cui è Federico a fargli capire che non ha alcun torto. È in braccio a suo padre che gli parla, gli chiede scusa, agli occhi di chi guarda è solo un adulto che parla da solo tenendo in braccio un bambino di 4 o 5 anni che si muove in modo strano, ma di colpo quel bambino si ferma, lo guarda e lo fissa negli occhi (anche in questo caso una cosa che Federico non faceva mai) e con quello sguardo fisso in qualche modo “parla” a suo padre.

Già, perché Federico è un bambino che i medici definiscono “non verbale e non vocale” e questo, se possibile, rende la quotidianità ancora più complicata. Lui ha bisogno di routine, di ripetere mille volte lo stesso gesto per, in qualche modo, interiorizzarlo, di avere quelle che chiamano “ancore emotive”. È a quel punto che Bubu si accorge delle similitudini con un tema che conosceva bene, il tennis appunto, e che applica la sua esperienza maturata sul campo nella vita con Federico. Per un buon allenatore sono fondamentali anche i viceallenatori ed ecco che, nel tennis club di casa Melis, un ruolo fondamentale lo gioca proprio Lucrezia che, per quella alchimia incomprensibile che si crea con l’amore fra fratelli, diventa una risorsa preziosa, la spalla di Federico che, forse, lei più di tutti capisce.

“Abbiamo cercato di girare in positivo, per quanto possibile, la malattia di Federico”, mi dice seduto a quel tavolo, “e oggi posso dire che mio figlio mi ha arricchito”. Ma per quel figlio, e per tutti i pazienti autistici, bisogna ancora fare tantissimo; un solo esempio, Federico oggi fa tre ore settimanali di terapia in convenzione, avrebbe necessità di farne almeno 15.

E poi la grande paura dei genitori con figli che soffrono: Cosa accadrà a loro… dopo di noi? Come sarà la loro adolescenza? Riusciranno mai ad avere un vero inserimento nel mondo del lavoro? A queste domande forse dovrebbe dare risposta lo Stato, o chi per esso. Ma nel mentre, come dice Bubu, loro continuano a vivere, a pensare al qui ed ora, soprattutto al cercare di fare tutto ciò che sia possibile fare, incluso viaggiare e far conoscere il mondo a Lucrezia e a Federico. “Certo”, ammette, “fatichiamo il doppio, ma ci fa star bene. Non ci siamo mai chiusi in casa e, anche se a qualcuno può sembrare strano, non ci vergogniamo”.

Sai una cosa Bubu? Non vedo proprio una sola ragione al mondo per cui dovreste vergognarvi. Ne vedo milioni, invece, per le quali dovete continuare a viaggiare e sorridere. Buona vita a voi.

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