La prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la Cop 27, si terrà tra circa un mese a Sharm El Sheikh, in Egitto, e si fa davvero fatica a catturare dei segnali positivi. Certo, non aiuta il clima di tensione con la crisi energetica e la corsa ai combustibili fossili di molti Paesi europei che si rifornivano dalla Russia. Ma le conseguenze del conflitto non sono l’unico problema. Resta irrisolto uno dei nodi principali, ossia la previsione di un fondo specifico per le perdite e i danni (Loss&Damage) dei Paesi più vulnerabili, causati dai cambiamenti climatici. Un fondo attraverso il quale le economie più ricche, storicamente i maggiori emettitori di gas serra, aiutino le nazioni più povere. Una richiesta chiara a cui non rispondono neppure le proposte che l’Ue porterà a Sharm el-Sheikh e che il vice presidente della Commissione Ue con delega al Clima, Frans Timmermans, ha presentato alla PreCop di Kinshasa, in Congo. Ma i segnali negativi arrivano dai fronti più diversi: si va dalle difficoltà finanziarie e di accreditamento che i giovani attivisti africani stanno incontrando per partecipare alla Cop egiziana ai progetti fossili su cui si investe proprio nel continente più colpito dai cambiamenti climatici, dalla presenza come sponsor alla Cop 27 della Coca-Cola, tra le multinazionali che immettono più plastica monouso sul mercato, fino al ‘consiglio’ dato della prima ministra britannica Liz Truss a re Carlo III (ambientalista da sempre) di non partecipare al vertice, quando la Cop 26 dello scorso anno è stata organizzata proprio dal Regno Unito.

L’avvertimento al Regno Unito – Una mossa poco gradita, anche tenendo conto del fatto che molti paesi del Commonwealth sono tra i più vulnerabili rispetto alla crisi climatica. Il governo egiziano ha manifestato dei timori rispetto al mantenimento dell’obiettivo zero emissioni nette entro il 2050 sostenuto dall’ex premier Boris Johnson. Non è solo il consiglio dato a Carlo, naturalmente, a preoccupare. Ma anche il fatto che Liz Truss, premier dal 6 settembre scorso, pur avendo affermato di sostenere lo stesso obiettivo sulle emissioni, avrebbe intenzione di concedere 130 nuove licenze estrattive di gas e petrolio nel Mare del Nord. E poi c’è il programma previsto nella British energy security strategy (e aggiornato ad aprile 2022) di aumentare la produzione interna di idrocarburi e i sussidi per le aziende fossili. Eppure lo ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, all’Assemblea generale dell’Onu di New York: “Le emissioni globali di gas serra devono essere ridotte del 45% entro il 2030 per avere qualche speranza di raggiungere lo zero netto entro il 2050. Ma le emissioni stanno salendo a livelli record, e porteranno a un aumento del 14% in questo decennio”.

I nodi da sciogliere – Ma gli impegni nella riduzione delle emissioni sono solo uno dei problemi da affrontare. Basti pensare che se, ad oggi, 122 Paesi hanno sottoscritto il Global Methane Pledge per limitare le emissioni di metano del 30% (rispetto a quelle del 2020) entro la fine del decennio, dei quattro principali emettitori – Usa, Cina, India e Russia – solo gli Stati Uniti l’hanno fatto. Eppure il metano ha la capacità di riscaldare l’atmosfera circa ottanta volte più velocemente della CO2. Il nodo certamente più urgente è però quello del fondo per le perdite e i danni, di cui si è discusso anche lo scorso anno alla Cop di Glasgow. Chiesto da un gruppo di oltre 130 nazioni (chiamato G77 + Cina), che oggi è presieduto dal Pakistan colpito dall’alluvione e rappresenta l’85% della popolazione mondiale. Questo fondo è altra cosa rispetto all’obiettivo dei 100 miliardi all’anno, che si sarebbero dovuti mobilitare già nel 2020 per gli interventi di mitigazione e adattamento. Non è andata così e ora si punta a raggiungere la cifra complessiva promessa nel 2009 a Copenaghen, ossia 600 miliardi di dollari entro il 2025, mentre i Paesi sviluppati sono chiamati a raddoppiare il loro sostegno (dai 20 a 40 miliardi di dollari all’anno), anche per un maggiore equilibrio tra le risorse destinate alla mitigazione e quelle, scarse, finora investite per l’adattamento. Solo che finora la somma per l’adattamento è servita anche a pagare i danni e le perdite già subite. Una coperta troppo corta. E allora va trovata una soluzione.

Le proposte dell’Ue che non raccoglie l’appello dei Paesi vulnerabili – Alla PreCop di Kinshasa, in Congo, Timmermans ha presentato le due proposte che l’Ue porterà a Sharm el-Sheikh. Quella di un ‘Global Shield’, a cui sta lavorando da mesi Berlino per migliorare l’efficienza del sistema con cui vengono gestiti gli aiuti umanitari e i regimi assicurativi e di sicurezza sociale in modo che, dopo i disastri, i sostegni arrivino in modo rapido e senza sprechi. Per gli attivisti è un modo per evitare di stanziare nuove risorse. Non convince, in realtà, neppure un’altra proposta. Quella di un sistema di allerta globale, che prende spunto dall’obiettivo lanciato a marzo 2022 dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres: riuscire entro i prossimi cinque anni ad essere protetti da sistemi di allerta precoce contro condizioni meteorologiche e cambiamenti climatici sempre più estremi. Insomma due alternative, ma nessun fondo ad hoc per far fronte ai danni causati da siccità, alluvioni e altri eventi estremi. Tra i Paesi Onu solo la Danimarca ha già annunciato che verserà oltre 13 milioni di dollari per sostenere i paesi in via di sviluppo che hanno subìto perdite causate dai cambiamenti climatici. Prima di Copenaghen, solo la Scozia e la regione della Vallonia, in Belgio, avevano stanziato fondi per pagare i danni provocati nei paesi più poveri dagli eventi estremi.

L’Africa tra Cop e progetti fossili – Che, però, come nel caso di quelli africani, sono divisi tra gli effetti del cambiamento climatico e lo sfruttamento sempre più spinto delle risorse fossili. Così, mentre in Congo, Paese con cui l’Italia ha stretto accordi per ulteriori forniture di gas naturale, non si sono raggiunti risultati esaltanti in vista della Cop e in Egitto Eni possiede il giacimento Zhor, il più grande del Mediterraneo, in Uganda a fare discutere è l’oleodotto East african crude oil pipeline (Eacop) da 10 miliardi di dollari. Il presidente e amministratore delegato della francese TotalEnergies, Patrick Pouyannè, dovrà ora rispondere davanti alla commissione per i diritti umani del Parlamento europeo dopo che il 15 settembre scorso Strasburgo ha approvato una risoluzione sulla violazione dei diritti umani e sui rischi ambientali legati all’oleodotto, che attraversa anche la Tanzania. Secondo un rapporto del Wwf, il progetto guidato da Total Energies e dalla China National Offshore Oil Corporation, metterebbe a rischio 12 riserve naturali e l’acqua per 40 milioni di persone in Africa orientale. E quando in questi giorni una cinquantina di manifestanti ha consegnato una petizione all’ambasciata dell’Unione europea a Kampala, contro l’oleodotto, nove studenti sono stati arrestati e alcuni di essi picchiati dalla polizia.

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