Nei giorni scorsi sia il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez che quello belga Alexander De Croo hanno criticato il maxi piano tedesco da 200 miliardi di euro contro il caro energia. Se ogni paese si muove per conto suo, in base alle sue disponibilità, si creano distorsioni nel mercato unico europeo con aziende più avvantaggiate di altre, più competitive non per meriti propri ma per aiuti esterni, hanno sottolineato i due capi di governo. Sebbene il piano tedesco sia imponente lo è forse un po’ meno di quello che sembra e alla fine non così distante da quelli adottati da altri paesi. I 200 miliardi inglobano precedenti stanziamenti e non verranno spesi tutti subito, ma costituiscono anche una riserva da mobilitare in caso di bisogno. In prospettiva, la questione esiste, almeno in via teorica. Tuttavia, per quanto riguarda l’industria italiana, al momento non si segnalano particolari problemi in termini di competitività. Anzi.

Nei primi 8 mesi dell’anno le esportazioni fuori dall’Europa sono salite del 19% rispetto allo stesso periodo del 2021. Quelle verso gli Stati Uniti addirittura del 31%, favorite anche da un cambio euro dollaro che si è fatto via via più favorevole. Esperti contattati da Ilfattoquotidiano.it notano come i dati sull’industria italiana siano al momento migliori di quelli delle aziende tedesche o francesi. Il rimbalzo post pandemia della produzione italiana è stato forte e, nonostante tutto, i dati sulle prospettive economiche del paese non sono drammatici. Il 2022 si dovrebbe chiudere con un incremento del Pil di almeno il 3,4% (dati Ocse) a fronte del +1,2% tedesco. Per il 2023 il governo prevede un +0,6% e l’Ocse un +0,4, non un dato da festeggiare ma neppure un risultato catastrofico. Inoltre l’universo imprenditoriale italiano si è ben ricapitalizzato dopo la crisi del 2008 e oggi dispone di una ragguardevole riserva di liquidità: sui conti ci sono 400 miliardi di euro, il doppio di dieci anni fa, a fronte di finanziamenti per 600 miliardi. Peraltro, come rimarca Alessandra Lanza, senior partner della società di consulenza Prometeia, “qualora il piano di Berlino dovesse ravvivare l’industria tedesca a trarne beneficio sarebbero anche le fabbriche italiane che sono tra i primi fornitori della Germania”.

Il peso del caro energia si fa sentire ma fino ad un certo punto e non necessariamente dove si pensa. È un po’ il gioco del cerino che passa di mano in mano ma a scottarsi è solo l’ultimo della catena. Di solito sono i consumatori e le imprese più piccole. I rincari dei prezzi dell’energia non fanno male a tutti, c’è chi ci guadagna, chi non ne risente e chi li subisce più dolorosamente. Chi ha più potere contrattuale ne approfitta. Molti operatori energetici, come è noto a chiunque paghi una bolletta, stanno guadagnando e tanto. Ma lo stesso sta accadendo ad esempio nella distribuzione alimentare. Gli agricoltori hanno alzato i prezzi ma in modo modesto poiché sottoposti alle condizione delle grandi catene distributive le quali, però, dal canto loro, ritoccano i listini in modo ben più consistente, guadagnando più di prima con la scusa dell’inflazione e del caro energia. Sinora le imprese energivore (acciaierie, etc), indicate spesso come le più a rischio, hanno invece mostrato una grande capacità di trasferire i costi aggiuntivi ai clienti e infatti i margini (la differenza tra ricavi e costi) non hanno sinora mostrato gravi deterioramenti. L’industria italiana della ceramica, una delle più attive nel lamentare i danni dell’aumento dei costi, spesso produce direttamente all’estero. Gli impianti per il mercato americano sono negli Stati Uniti e pagano il costo dell’energia locale. Dunque, almeno per quanto riguarda i mercati esteri, la perdita di competitività rispetto alla concorrenza spagnola, la più significativa, è relativa.

Questo processo di trasferimento dei costi da monte a valle non può però durare per sempre. Come sottolinea Lanza “è possibile farlo solo fino a che la domanda tiene”. Per quanto riguarda nello specifico l’industria dell’acciaio i clienti sono fondamentalmente due, l‘industria dell’auto e delle costruzioni. “L’auto sta rallentando ma c’è un grande arretrato di consegne che si è accumulato negli ultimi due anni a causa della mancanza di componentistica. Questo rende molto probabile che la richiesta di acciaio e alluminio non subirà cali repentini. Le costruzioni, sia grazie ai fondi del Pnrr destinati alle infrastrutture, sia per l’effetto di incentivi come il superbonus, continueranno a tirare”, spiega l’economista di Prometeia. Un po’ più in difficoltà la moda, che ancora non si è pienamente ripresa dallo stop della pandemia. Vanno bene invece ristoranti e alberghi, nonostante i rincari. “Questo, spiega Lanza, anche perché è un po’ cambiato l’approccio al consumo, si cerca di più il qui ed ora, l’immediata gratificazione”.

La questione di fondo rimane insomma fino a quando e a che punto i consumatori saranno in grado di assorbire gli aumenti che vengono scaricati su di loro. I segnali di un infiacchimento della domanda iniziano a vedersi ed è soprattutto attraverso questo canale che una politica di sostegni pubblici a macchia di leopardo potrebbe produrre sviluppi differenti. Una questione da tenere conto tutte le volte che si parla di salari minimi, rinnovi contrattuali e interventi di sostegno al reddito che possono puntellare il potere di acquisto delle famiglie. L’Italia è un grande consumatore di gas. Il 40% dell’energia prodotta proviene da centrali elettriche che funzionano con questo tipo di alimentazione e qui finisce il 42% del gas che compriamo. Un altro 30% è usato per il riscaldamento domestico, dove l’aumento dei prezzi sta facendo più danni. Dall’ industria viene usato direttamente il 15% del gas che arriva in Italia, in primo luogo da quelle che producono piastrelle (18% del totale usato nell’industria), nella chimica per la produzione di sostanze come l’ammoniaca (15%), nelle cartiere (15%), nella siderurgia (13%) e infine nell’industria alimentare, per lo più per i forni.

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