Anche nel 2020 e nonostante la pandemia, la presenza di stranieri si conferma un contributo positivo ai conti pubblici italiani. Il saldo tra entrate e uscite è di 1,4 miliardi di euro. E’ quanto emerge dall’analisi dei dati condotta dalla Fondazione Leone Moressa, che il prossimo 18 ottobre a Roma presenterà il XII Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Dalla salute alla scuola, dai servizi sociali all’assistenza, il rapporto calcola i “costi medi” della presenza straniera ovvero la sua incidenza sulla spesa pubblica, e la confronta con il gettito fiscale e contributivo generato dagli immigrati. Dati che aiutano “a sfatare il luogo comune secondo cui la presenza immigrata in Italia sia principalmente un costo per lo Stato”, scrive il ricercatore della Fondazione, Enrico Di Pasquale. Ma anche numeri che dialogano con il saldo negativo tra giovani e anziani, che negli ultimi vent’anni ha visto ridursi di 4,6 milioni (da 23,8 a 19,2) le persone tra i 20 e i 50 anni, quelle nella cosiddetta età d’oro per il mercato del lavoro. Un deficit che la presenza di stranieri ha compensato solo in parte, passando nello stesso periodo da 900 mila a 3 milioni. “Certo serve invertire la tendenza delle nascite, ma per i risultati occorrono decenni”, avverte Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e Statistica sociale alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano. “Nel frattempo dobbiamo aumentare la presenza straniera, trasformando l’approccio emergenziale in un meccanismo di sviluppo del Paese”.

La platea analizzata dal nuovo rapporto della Fondazione Leone Moressa considera tutti i residenti regolari con cittadinanza straniera, compresi gli 80mila collocati nei centri di accoglienza a fine 2020, per un totale di 5,2 milioni di persone, di cui 2,2 milioni occupati. Quanto ha inciso la loro presenza su una spesa pubblica che nell’anno della pandemia è aumentata dell’8 per cento soprattutto a causa della disoccupazione? Alla sanità sono costati 6,1 miliardi di euro su 130 miliardi di spesa complessiva. Un’incidenza bassa che ha precise ragioni demografiche. Secondo il ministero della Salute la metà dei ricoveri in ospedale riguarda la popolazione con più di 65 anni, dove appena l’1,8 per cento è straniero. Inoltre e per lo stesso motivo, i ricoveri degli immigrati sono più brevi e riguardano soprattutto i reparti di pronto soccorso e maternità. A scuola gli alunni stranieri superano ormai il 10 per cento (877mila nell’anno 2019-2020). Al netto di benefici per la sostenibilità di un sistema scolastico che altrimenti risentirebbe del calo demografico nazionale, il rapporto attribuisce alla presenza straniera 6 miliardi di euro di spesa sul totale di 58 miliardi.

Ci sono poi i “servizi sociali, servizi locali e casa” per una spesa di 1,3 miliardi. In particolare sull’edilizia residenziale pubblica gli stranieri, pur rappresentando una quota significativa tra le persone in graduatoria per un alloggio, sono in realtà appena il 12,8 per cento degli utenti effettivamente beneficiari dell’alloggio. E nel rapporto la voce “casa” vale quindi 75 milioni di euro. Ancora, il comparto “giustizia e pubblica sicurezza” vale 3,3 miliardi. Dato in calo è quello della spesa per “immigrazione e accoglienza“, già diminuita negli ultimi anni e dimezzata rispetto al 2019 per effetto della pandemia, con una spesa che nel 2020 è calcolata in 1,7 miliardi. L’ultima voce è poi quella dei trasferimenti monetari diretti, dove la spesa per l’assistenza prevale su quella per la previdenza, con l’incidenza straniera che è rispettivamente del 20 per cento e dell’1 per cento. Nel 2020 i costi assistenziali sono cresciuti soprattutto sul fronte del sostegno alla disoccupazione, che insieme alle altre prestazioni non pensionistiche ha erogato agli stranieri 6,2 miliardi, il 23,2 per cento del totale. Mentre la spesa pensionistica vale 2,2 miliardi, appena lo 0,7 per cento del totale.

Quanto alle entrate, il rapporto calcola che l’Italia ha incassato dagli stranieri residenti 3,7 miliardi di Irpef, comprese addizionali comunali e regionali, su un volume di redditi dichiarato pari a 27,1 miliardi. Sulla base delle rilevazioni sui consumi che indicano per gli immigrati una spesa prevalentemente di sussistenza, il rapporto calcola 3,2 miliardi di IVA, pari al 3 per cento di tutta quella riscossa in Italia. Altri 3,3 miliardi arrivano dalle altre imposte sui beni di consumo, dai tabacchi ai rifiuti, dall’auto al canone tv. Considerando poi che solo il 14 per cento degli stranieri ha una casa di proprietà, Imu, Tasi, Tari e imposte su luce e gas ammontano a 1,9 miliardi di gettito. Tra rilasci e rinnovi dei permessi di soggiorno (2,3 milioni) e acquisizioni di cittadinanza (131 mila nel 2020) gli immigrati pagano tasse per 200 milioni di euro. Da ultimo, i contributi previdenziali e sociali versati dagli stranieri, che secondo il rapporto Inps 2022 valgono 15,9 miliardi. Tutto sommato, le entrate così calcolate ammontano a 28,2 miliardi, che a fronte di uscite per 26,8 miliardi di euro restituiscono un saldo positivo di 1,4 miliardi.

Una situazione che, scrive Di Pasquale, “è destinata a migliorare ulteriormente” man mano che i dati su redditi e consumi torneranno in linea con quelli pre pandemia e la spesa per i sostegni a famiglie e imprese, aumentata nel 2020, si ridurrà. Esclusi dall’analisi sono peraltro i benefici forniti dalla presenza immigrata alle dinamiche demografiche e alle necessità del nostro sistema produttivo. Tutti contributi che continueranno, “garantendo forza lavoro, consumi e nuovi investimenti, a patto che i processi di inclusione siano sostenuti da una programmazione efficace”, scrive Di Pasquale. E’ quanto manca all’appello per trasformare l’immigrazione da emergenza che necessita di soluzioni emergenziali a “componente dello sviluppo economico e sociale”. Una transizione obbligatoria secondo il demografo Alessandro Rosina, che di fronte ai dati della Fondazione Moressa ricorda quanto sia invece negativo il saldo tra italiani che compiono 15 anni e italiani che superano i 65.

“Siamo poco sopra i 14 milioni di over 65 e nel 2050 arriveranno a 19 milioni. E’ la fascia d’età in uscita dalla vita attiva, quella che aumenterà la domanda di assistenza e di pensioni”, spiega. Al contrario, “gli attuali trentenni sono un terzo in meno rispetto ai cinquantenni. Senza adeguati flussi migratori andremo incontro alla riduzione della forza lavoro: finora al centro della vita attiva ci sono state le persone nate fino agli anni 60, una generazione con sufficiente consistenza demografica. Ora quella generazione diventa anziana e al centro della vita attiva non c’è un numero di persone sufficiente a compensarla”. Con record negativi sulle nascite che si superano di anno in anno, l’Italia ha certo bisogno di politiche che incentivino la natalità. “Ma servono decenni per integrare la forza lavoro, che nel frattempo va allargata anche con gli stranieri”, spiega Rosina. Quanti? “Almeno 300-400mila l’anno“. Anche prendendo in considerazione i più consistenti ingressi pre pandemia, significa raddoppiare i flussi annuali. “La Germania ha compensato gli squilibri con politiche familiari, ma anche assorbendo manodopera straniera: mezzo milione l’anno negli ultimi 10 anni”, aggiunge. “Ovviamente i flussi vanno integrati, inseriti nel mondo del lavoro, e le persone vanno formate per rispondere alle reali esigenze del tessuto produttivo. Ma per fare questo va adottato un approccio pragmatico e serve diventare più attrattivi per i lavoratori stranieri così come già altri paesi hanno fatto, perché dobbiamo accettare che il calo demografico impone di gestire l’immigrazione come una componente essenziale dello sviluppo del Paese”.

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