di Marina Boscaino e Franco Russo

Leggendo i diversi programmi elettorali dei quattro partiti del centrodestra, ci si accorge che i primi due capitoli sono identici, in quanto riprendono alla lettera il programma comune relativo alla collocazione internazionale dell’Italia – fedeltà all’alleanza occidentale della Nato e all’Unione europea – e alle questioni istituzionali. Le scelte del centrodestra sono unanimi e ruotano intorno all’elezione diretta del presidente della Repubblica e all’attuazione del “percorso già avviato per il riconoscimento delle Autonomie ai sensi dell’art. 116, comma 3 della Costituzione, garantendo tutti i meccanismi di perequazione previsti dall’art. 119 della Costituzione” (punto 3 del programma del centrodestra). Come possono conciliarsi due istanze così apparentemente antitetiche?

Come può il partito di Fratelli d’Italia (che trova nel nazionalismo spinto la propria dimensione identitaria) consentire allo smembramento della repubblica in potenziali 20 repubblichette autonome, ciascuna con la potestà legislativa esclusiva su fino a 23 materie (a seconda di quante la singola regione ne voglia chiedere, nella stipula del proprio accordo con il governo), tra cui istruzione, sanità, ambiente, infrastrutture, beni culturali, sicurezza sul lavoro, ricerca scientifica, alimentazione, rapporti con l’Ue?

La risposta a questa domanda sta innanzitutto nella consolidata attitudine a scambi politici riguardanti istituti costituzionali: la revisione della Costituzione è divenuta merce di scambio tra partiti. Anche in questo caso il centrodestra ha raggiunto un compromesso tra le differenti visioni di FdI e Lega, mettendo insieme presidenzialismo e autonomia differenziata; il presidenzialismo, in sostanza, nella lettura di questo centrodestra – e in particolare di Fratelli d’Italia – eviterebbe i rischi di secessione delle ‘regioni ricche’ dal resto del paese.

Che questo sia il progetto si evince dal testo della proposta di legge Ac 716, prima firmataria Giorgia Meloni. Nella relazione alla proposta di legge Ac 716 si afferma che il presidente della Repubblica, eletto direttamente dai cittadini, fa da “collante dell’unità nazionale” e “consentirebbe di discutere serenamente dell’articolazione dei poteri decentrati, senza che si possano temere spinte centrifughe … il presidenzialismo, con la sua garanzia dell’indissolubilità dell’unità nazionale, consentirebbe di aprire ad avanzati esperimenti di federalismo”. Da una parte, dunque, il via libera alla stipula di intese tra singola regione e governo (pratica già inaugurata nella sua fase preliminare dal governo Gentiloni, di centro-sinistra, che nel 2018 iniziò la procedura con Lombardia e Veneto – Lega – ed Emilia Romagna – Pd) per rendere ancora più drammatico e differenziato il processo autonomistico inaugurato dalla riforma del Titolo V nel 2001, con diversificazione dei diritti sociali e – di conseguenza – politici, a seconda del territorio in cui si vive: un’infrazione istituzionalizzata ai principi di uguaglianza e solidarietà (le regioni chiedono, tra le altre cose, il trattenimento del proprio gettito fiscale, del tutto o in parte).

Dall’altra – attraverso la foglia di fico dell’elezione diretta e della funzione di collante dell’unità nazionale – una straordinaria concentrazione di poteri nella figura del presidente della Repubblica. Ci sono due vizi in questo progetto di tenere insieme presidenzialismo e autonomia differenziata. Il primo è che, essendo il presidente della Repubblica eletto direttamente, egli rappresenterebbe una parte dei cittadini (e non sempre maggioritaria, come dimostrano le elezioni in Francia); inoltre, essendo guida del governo, perseguirebbe un indirizzo politico di parte. Dunque, il presidente della Repubblica acquisirebbe solo nominalmente la funzione di garante dell’unità nazionale. Egli – in questo senso e in molti altri – essendo rappresentante di una parte politica che sostiene e contiene nel proprio programma le autonomie differenziate, sarebbe nella sostanza costretto ad abdicare a quella funzione. A meno di rinunciare ai voti della Lega, egli si troverebbe obbligatoriamente a non bloccare un processo eversivo – quello dell’autonomia differenziata – della propria stessa funzione.

Il secondo vizio, altrettanto grave, è l’ideologia secondo cui una persona esprime la volontà di un intero popolo, vizio tipico di ogni totalitarismo, per cui il presidente ‘incarna’ la volontà di tutti, perfino di chi non l’ha votato. Lo abbiamo sperimentato in varie situazione e a vario titolo attraverso l’osanna ai vari “uomini della provvidenza” che si sono alternati nella lunga fase della crisi della democrazia parlamentare: da Monti a Renzi, per arrivare a Draghi. In questo modo si distorcono le finalità dell’istituto della rappresentanza, che mira proprio a eleggere rappresentanti di parte che, in quanto tali, contribuiscono alla formazione delle decisioni collettive.

Non bisogna però credere che le due proposte di riforma istituzionale – autonomia differenziata e presidenzialismo – siano prerogativa esclusiva del centro destra, da additare – nel gioco di compensazioni ed equilibrismi di cui abbiamo detto – come responsabile unico di questo ripetuto attacco alla Costituzione. Anche il centro sinistra ha fatto la sua parte, eccome. Pochi sanno che esistono due disegni di legge sul presidenzialismo a firma, rispettivamente, di Tommaso Cerno e Stefano Ceccanti. Molti di più sanno che il progetto di autonomia differenziata (a partire dalla riforma del Titolo V del 2001, cui i Ds collaborarono in maniera sostanziale e solerte) trova nel Pd uno degli interpreti principali: Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna, che chiede potestà legislativa esclusiva su 16 materie.

Non si tratta di una proposta meno devastante rispetto all’unità della Repubblica e all’uguaglianza dei diritti di quelle portate avanti da Zaia a Fontana, rispettivamente presidenti del Veneto e della Lombardia, nonostante sia stata propagandata come autonomia soft, solidale, giusta e così via edulcorando. Rimane misterioso il motivo per cui il Pd non abbia inserito il tema nel proprio programma elettorale. Un ravvedimento dell’ultima ora? Sarebbe bello. Ma Bonaccini è troppo forte e molti dei dirigenti del Pd si sono espressi a più riprese a favore, non ultimo Piero Fassino che, sul Mattino di Padova del 5/9/22, ha dichiarato: “L’autonomia differenziata non è uno strappo: è contemplata dalla Costituzione nel quadro dell’unità nazionale e io mi impegnerò con il mio partito affinché diventi realtà”.

E’ probabile che – in tempo di campagna elettorale e di “voto utile” – si preferisca tenere i militanti del partito di Letta ancora ignari di quello che – in particolare per quanto riguarda le regioni meridionali, ma non solo – si ha in serbo per loro.

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