Quello che era centro è ormai diventato periferia. E questo scivolamento alla deriva rischia di essere irreversibile. La chiusura di quel sogno collettivo chiamato calciomercato costringe a guardare negli occhi una realtà che ha i contorni dell’incubo. Da anni la Serie A non è più il campionato più ricco e bello del Vecchio Continente. Da signore a servo della gleba. E tutto in poco più di un ventennio. Un declino che non fa neanche più notizia. Se non per le dimensioni della sua portata. Per comprendere davvero la marginalità della Serie A basta tirare fuori un dato. Nell’ultima finestra di mercato i club della Premier League hanno speso qualcosa come 2.25 miliardi di euro in campagna acquisti. In pratica quanto Serie A, Liga, Bundesliga e Ligue 1 messe insieme (2.29 miliardi). Un predominio assoluto che non solo si è cristallizzato, ma sembra anche destinato a crescere nel corso degli anni.

Tanto che in un articolo apparso su The Independent, Miguel Delaney afferma che la superiorità della Premier League è “molto più ampia e destinata a durare rispetto a quella che la Serie A italiana esercitava negli anni Ottanta e Novanta”. Ci sono diversi numeri che raccontano come questa disparità economica fra i tornei continentali sia ormai impossibile da ripianare. Degli 11 acquisti più cari effettuati in questa finestra di mercato ben 8 (ossia il 73%) sono stati chiusi da club di Premier League. E ancora: la Serie A, seconda in questa speciale classifica, ha speso in tutto 749 milioni (dati Transfermarkt), poco più di un terzo rispetto alle squadre inglesi. La Ligue 1 (dove il dato relativo al PSG falsa la media nazionale) rincorre a 558 milioni, La Liga a 507, la Bundes a 484. Competere diventa praticamente impossibile. E gli echi dell’inizio della pandemia, quando il calcio globale piangeva perdite così dolorose da far saltare per aria il gioco, sembrano ormai un ricordo sbiadito.

“Non può essere un bene per il gioco globale se la maggior parte della ricchezza, e quindi del talento, finisce in un solo Paese – ha scritto Jonathan Wilson sul Guardian – Mentre la pandemia martellava le finanze dei club continentali, la Premier League, isolata dal resto del continente grazie al suo enorme contratto per i diritti televisivi e dal fatto che molti dei suoi proprietari sono dipendenti dagli incassi delle partite o dal tipo di entrate commerciali che dipendono dalla presenza degli spettatori allo stadio, ha visto rafforzata la sua posizione già dominante”. Ma la natura del divario non riguarda solo la forza attrattiva. Perché il dominio della Premier League non sta tanto nell’essere riuscita a portare in Inghilterra Haaland, Casemiro o Antony (ovviamente a cifre astronomiche), ma in altri due elementi. Il primo è la capacità di spesa della classe medio-piccola. Una volta tornato in Premier League dopo 23 anni di assenza, il Nottingham Forest ha investito sul mercato 157 milioni di euro, ossia quasi quanto l’intero campionato portoghese (175 milioni) o quello olandese (173). O, meglio ancora, una decina di milioni in più rispetto al totale di Cremonese, Torino, Fiorentina, Monza, Empoli, Roma, Spezia, Sampdoria e Lecce, o 55 in più della Juventus.

Ormai è chiaro. In Inghilterra si gioca uno sport diverso, una campionato a parte. E c’è un altro dato che lo testimonia. I grandi club piazzano grandi colpi. Significa innestare in rosa campioni, ma anche flop clamorosi. Succede ovunque, ma in Inghilterra le società riescono a sopravvivere molto meglio ai propri errori. Il Manchester United si può permettere di comprare Harry Maguire per 93 milioni di euro, di spenderne altri 57 per rimpiazzarlo con Lisandro Martinez e di iniziare a vincere quando il nuovo allenatore decide di spedire in panchina (insieme a Cristiano Ronaldo) il difensore della nazionale inglese. La Roma, una delle squadre più attive in Italia, ha invece dovuto aspettare fino all’ultima settimana di calciomercato per cedere Felix alla Cremonese e sostituirlo con Belotti, visto che la cessione di Shomurodov al Bologna era saltata.

Con i suoi incassi la Premier League genera un’opulenza impossibile da contrastare. In questa finestra di mercato il saldo fra soldi spesi e incassi derivanti dalle cessioni dei club inglesi ha fatto segnare un passivo di oltre un miliardo e trecento milioni di euro. Per la Serie A il segno meno è stato di 3 milioni, mentre Ligue 1 e Bundesliga hanno chiuso in attivo rispettivamente di 43 e 44 milioni. Vuol dire che mentre i club di tutta Europa boccheggiano e sono costretti ad affidarsi a un’economia circolare, dove le cessioni servono a bilanciare i nuovi arrivi e dove la vendita degli esuberi diventa prioritaria, i club inglesi possono immettere denaro fresco nel circuito, senza essere costretti a portarsi dietro il peso dei propri errori. È l’inizio di una spirale dove tutto sembra concatenato: maggiori investimenti portano a più successi, che portano in dote più premi in denaro, più diritti televisivi, più entrate dal merchandising, più coinvolgimento dei tifosi (anche di chi simpatizza per altri club). Uno scenario che assomiglia a quella canzone di Frankie HI-NRG MC, dove gli ultimi restano gli ultimi se i primi sono irraggiungibili. Da anni si parla di tetto per le spese e di redistribuzione della ricchezza. Ma ora una strategia comune non può più essere rinviata. Altrimenti il calcio della Premier League diventerà uno sport a parte.

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