di Pietro Francesco Maria de Sarlo

Questa campagna elettorale è iniziata e finita nello stesso istante in cui Enrico Letta ha escluso ogni possibilità di alleanza con il M5S poiché “il giudizio dei nostri elettori è stato lapidario”. Il momento dopo, la teoria del voto utile contro il pericolo fascista ha perso ogni credibilità, giacché se si era in presenza di una emergenza democratica allearsi con il M5S era indispensabile. Ci sono ottime probabilità che al momento della decisione nel Pd ci fosse la convinzione che la presunta indignazione popolare per la caduta del governo Draghi, insieme alla operazione Di Maio, avrebbe spinto gli elettori del M5S a votare in massa Pd. Ma quanto vale questa indignazione? Dal recente sondaggio IZI risulta che “Oltre il 30% degli intervistati ha affermato che spera in un governo con la partecipazione di tutti i partiti e guidato da Mario Draghi”.

Praticamente la somma dei voti che i sondaggi attribuiscono ai partiti della agenda Draghi: Pd, Azione, ItaliaViva e +Europa. Nessuna indignazione quindi, c’è però una irrituale candidatura di Draghi, di cui si ignora ogni opinione al riguardo. Una indubbia rottura della prassi per cui chi si candida premier lo fa in termini espliciti e sottoponendosi ai dibattiti che consentono all’elettore di avere una idea diretta sui candidati. Questo avrebbe esposto Draghi a un contraddittorio non solo sul suo operato da premier, ma anche da direttore generale del Tesoro, da governatore della Banca d’Italia e delle Bce, da vice presidente di Goldman Sachs eccetera, rischiando di togliergli quell’aura di ‘indiscutibilità’ che lo circonda. Letta si sta rendendo conto dell’abbaglio preso e che il M5S sta accreditandosi come forza, insieme a Unione popolare di De Magistris, della sinistra e corre ai ripari rinvangando il governo gialloverde e rilanciando i temi delle politiche sociali propri del M5S, reddito di cittadinanza e salario minimo, per esempio.

Anche al sud il Pd soffre la concorrenza del M5S e arranca, tanto che Letta si è visto costretto a negare l’agenda Draghi. Il 31 agosto a Porta a Porta ha affermato che il Pd è contrario alla autonomia differenziata. Bene! Però forse Bruno Vespa ha dimenticato di ricordare a Letta e agli elettori che nelle comunicazioni di Draghi al senato questa faceva parte dell’elenco delle cose da fare prima della scadenza naturale del governo e su cui Draghi ha chiesto la fiducia; che i governatori di Toscana Giani e Emilia Romagna Bonaccini, entrambi Pd, avevano sottoscritto il ddl Gelmini sulla autonomia differenziata che prevedeva la sottrazione degli accordi Stato-Regione alla potestà del Parlamento e il mantenimento dei costi storici, avversato dalle regioni del Sud. Infine, poiché il primo accordo in materia fu fatto dal governo Gentiloni nel febbraio 2018, forse Vespa avrebbe dovuto chiedere se si fosse confrontato con Gentiloni e se questi avesse cambiato idea.

Letta ha poi magnificato il 40% dei fondi del Pnrr previsti al sud. Però al sud ormai si documentano e credono poco alle favole e: primo, la popolazione del sud rappresenta circa il 34% della popolazione italiana e quindi il teorico surplus, rispetto alla quota spettante in base alla popolazione, è solo del 6%; secondo, questo 6% vale circa 12 miliardi in 7 anni; terzo, se si fossero utilizzati i criteri con cui l’Unione europea ha assegnato i fondi ai singoli paesi con l’idea di diminuire i divari economici all’interno della Ue al Sud sarebbe toccato l’80% dei fondi (160 miliardi); quarto, ogni anno il differenziale negativo di spesa pubblica corrente tra il sud e il nord ovest vale 5.000 euro per abitante, che moltiplicati per i 20 milioni di abitanti vale circa 100 miliardi, ossia 700 miliardi per il periodo del Pnrr.

E quindi? Con 12 miliardi ne compensiamo 700? E con questo che compensiamo la perpetrazione ad libitum del costo storico? Detto ciò, credo che non solo Letta, ma tutti i partiti che chiedono voti al sud debbano essere chiari sulla autonomia.

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