di Stefania Rotondo

“Chi, se non noi? Quando, se non ora?”. Le parole pronunciate dal Cancelliere tedesco Scholz il 29 agosto a Praga hanno rievocato la frase simbolo della Rivoluzione di velluto iniziata dai giovani polacchi nel novembre dell’89. “E’ adesso che le decisioni devono essere prese”. Un chiaro riferimento a una Europa geopolitica che si sta spostando verso Est, un j’accuse sulle politiche energetiche miopi portate avanti per quasi cinque lustri da Merkel e Schröder (ma anche da Italia, Francia e da buona parte dei Paesi nati sulle ceneri del Patto di Varsavia), un inequivocabile messaggio per l’amico Macron per un’Unione europea con 30 o 36 Stati membri, perché per Scholz “le regole europee possono essere cambiate in fretta”.

L’inverno è arrivato e questo non è il titolo di un episodio di una popolare serie tv; è il risultato dei sacrifici economici che ci imponiamo per colpire il despota russo. In un quadro congiunturale in cui si è inserita anche la siccità, nelle ore più buie dell’Europa “in fiamme”, le regole europee paiono come l’acqua, prendono la forma del recipiente che le contiene.

Il vaso prestissimo non solo non conterrà più acqua, ma neanche gas e petrolio. Per contrastare la manipolazione russa del mercato energetico europeo e per bloccare le entrate del bilancio del Cremlino con le quali finanzia la sua “operazione speciale”, in queste ore il G7 evoca ciò che finora era un tabù, ovvero un price cup sul gas e sul petrolio importati dalla Russia. Mentre la presidente von der Leyen dice di fare presto (un memento al “signor no” Orbán?), Putin risponde bruciando gas a Portovaya, chiudendo i rubinetti di Nord Stream 1 e minacciando blackout, potenzialmente catastrofici, della centrale nucleare a Zaporizhzhia. In attesa di infrangere gli ennesimi tabù pluriennali, ovvero trovare nuove fonti di approvvigionamenti alternative a quelle russe e dissociare il prezzo dell’elettricità da quello del gas, gli stoccaggi Ue hanno raggiunto l’85%, ma i razionamenti e i piani di emergenza nei paesi del vecchio continente sul consumo delle fonti energetiche non sono più utopia, sono una tragica realtà.

Putin, pur di mettere in ginocchio la Germania o l’Italia, è pronto verosimilmente a vendere a prezzi stracciati ad altri paesi (Cina in primis) il gas e il greggio destinati all’Europa, con l’intento di far impazzire i prezzi delle fonti energetiche e far collassare l’economia europea. E ci sta riuscendo. La crisi che morde ora l’Occidente non è paragonabile a quella del 2008: all’epoca fu innescata da fattori endogeni, ovvero da un eccesso di leva finanziaria che portò alla mancanza di fiducia della perpetuità della stessa. Ora invece gli elementi della crisi sono esogeni al sistema economico. Non derivano né da un eccesso di domanda, né di offerta, né tantomeno di leva. L’inflazione nasce da un aumento di massa monetaria nell’economia ed evocarla in questo contesto è improprio. La crisi, che come dice Macron sta delineando “la fine dell’abbondanza”, è conseguenza della guerra e delle inefficienze di coloro che dirigono la nave e ha fatto schizzare i prezzi delle materie prime mantenendo salari bassi.

Pensare allora di sconfiggere il risveglio del gigante russo con le sanzioni (dannose più per noi che per lui) e con un goffo attutimento dell’illusoria inflazione tramite innalzamento dei tassi di interesse è una follia. Berlino dunque apre alla misura spinta dall’insostenibilità dei prezzi energetici, stabiliti dalla “schizoide” borsa di Amsterdam (basata sui futures). Sanzionare e vedere il prezzo delle fonti energetiche salire, assistere alla crescita dei tassi di interesse che allarma i mercati, alza gli spread e impoverisce gli europei, non è inflazione, è crisi manageriale!

Scholz ha ragione: in mancanza di un’accoglienza dell’orso nella Ue è necessario spostare il baricentro verso oriente, per arginare la pressione del Cremlino. In attesa che il riarmo tedesco metta in moto la macchina, ovvero la guerra, chi se non loro?

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