Almeno in 6mila, accanto ai lavoratori, perché la fuga di Wärtsilä è inaccettabile e rischia di avere un contraccolpo sull’indotto e il tessuto economico della regione. In piazza a Trieste per invitare la multinazionale finlandese a ritirare i 451 licenziamenti, frutto della decisione di centralizzare a Vaala la produzione dei motori industriali, dismettendo il sito giuliano, “ci sarà il Paese che difende il lavoro”, dice Michele De Palma, segretario generale della Fiom-Cgil, che ha organizzato il corteo con Uilm e Fim-Cisl. Accanto a loro hanno annunciato la propria partecipazione tutte le istituzioni del territorio, i partiti e numerose associazioni: il sintomo di una decisione tanto radicale quanto incomprensibile per chiunque. “Una scientifica ricollocazione della produzione”, la chiama De Palma. L’ultimo colpo di un’azienda estera che, dopo aver acquisito un gioiello nato nel 1971 e a lungo pubblico, ferma una fabbrica in utile e se ne va. “Per anni la cultura dominante è stata quella di lasciar fare al mercato e abbiamo perso il governo di una parte dei nostri settori”, sottolinea. E in vista di un autunno condizionato dal caro-bollette, quella di Wärtsilä rischia di essere solo una delle situazioni complicate che il sindacato dovrà fronteggiare: “Bisogna intervenire sui salari per arginare gli effetti dell’inflazione, che saranno ancora più pesanti per quei lavoratori che finiranno in cassa integrazione. Rischiamo una situazione simile a quella del lockdown con fermate produttive che si riverbereranno sul potere d’acquisto”, avvisa il leader della Fiom. La preoccupazione è rivolta soprattutto ai precari, per i quali – dice – bisognerebbe riproporre il “blocco dei licenziamenti” come avvenuto durante la fase più acuta della pandemia. “Altrimenti – avvisa – si innescheranno effetti a catena disastrosi”.

Cosa chiedete su Wärtsilä?
C’è un unico obiettivo, condiviso da sindacati e cittadinanza, che è poi il tentativo di affermare un diritto, quello della continuità occupazionale e produttiva dello stabilimento. L’azienda deve ritirare i licenziamenti. E chiediamo al governo di condividere le nostre azioni. Fino a prova contraria è in carica.

Come già avvenuto per altri ‘fulmini a ciel sereno’, GKN e Whirlpool Napoli, la risposta dei lavoratori è compatta e il governo sembra impotente.
Va premessa una puntualizzazione: si tratta di fulmini a ciel sereno per lavoratori e cittadini. Ma le multinazionali costruiscono queste scelte negli anni precedenti. La controparte arriva sempre pronta, non decide da un giorno all’altro. Perché vale la pena ricordarlo: non stiamo parlando di crisi aziendali, ma di una scientifica ricollocazione della produzione in altri Paesi.

Alla manifestazione partecipano non solo le istituzioni, ma anche Confindustria. Non è consueto vedervi fianco a fianco.
La realtà è che avremmo bisogno di un sistema industriale e di un’organizzazione della sua rappresentanza che ragioni di programmazione. Per anni la cultura dominante è stata quella di lasciar fare al mercato e abbiamo perso il governo di una parte dei nostri settori. Nel caso della Timken di Brescia, la rappresentanza del sistema industriale ha posto il tema alla multinazionale statunitense, divenendo un soggetto attivo. Se oggi la Confindustria triestina vuole avere un ruolo, si interfacci con Wärtsilä per ritirare i licenziamenti.

Per la portata della manifestazione, come avvenuto in passato con altre vertenze, quella di Wärtsilä sembra assumere i contorni di un caso simbolo.
La piazza di Trieste rappresenta il Paese, almeno quella parte che difende lavoro e industria. E vuole dare una prospettiva, un futuro all’Italia. Ciò che emerge da questa mobilitazione è una nuova consapevolezza: i lavoratori dell’industria non sono più invisibili. La vera sfida è fare in modo che siano centrali non solo quando le fabbriche chiudono o gli operai muoiono negli stabilimenti. Il lavoro metalmeccanico dovrebbe essere argomento giornaliero, per prevenire i rischi di cessazione di attività e gli incidenti.

Dall’ex Lucchini di Piombino passando per Ilva, fino a Embraco e Bekaert. Tra reindustrializzazioni fallite e situazioni ancora in bilico, perché è così difficile superare le crisi?
Partiamo da un dato: sono anni che i ministri sfilano allo Sviluppo economico occupandosi solo di vertenze, mai di sviluppo economico. Non veniamo convocati per discutere di transizione o formazione, ma solo quando si determinano le crisi. Se non si ha uno straccio di programmazione né un’idea di quali siano i settori sui quali investire, il ministero continuerà a ripetere sempre la stessa cosa; che non ha strumenti per intervenire quando le aziende vanno via.

Sta dicendo che manca un interlocutore?
Mi pare chiaro che i lavoratori fanno la loro parte tutti i giorni, producendo e innovando. Dall’altro lato, invece, non c’è una visione. Siamo lavoratori senza Stato e, mi sia perdonato il termine, senza “padrone”. Sì, facciamo fatica a trovare interlocutori per parlare di futuro. Continuando così diventeremo un Paese che acquisterà e basta, senza leve per decidere elementi economici e senza produzione di beni e servizi. Avremmo bisogno di un tessuto industriale in grado di riorganizzarsi e investire risorse nell’industria, invece si assiste, in larga parte, a crisi lunghissime. Non è forse paradossale che l’Italia abbia la capacità di produrre 2 milioni di veicoli e sia ferma ad appena 400mila? E che una situazione simile si verifichi con l’acciaio? Tutto questo in un momento in cui il mix di inflazione, crisi del potere d’acquisto e difficoltà di accesso a materie prime rischiano di assestare un colpo drammatico alla nostra economia.

A proposito di crisi energetica: appare evidente che finirà per intaccare anche comparti solidi e inscalfibili. C’è il rischio di incrinare la ‘spina dorsale’ dell’industria italiana?
La Fiom ha già svolto una consultazione con le sue strutture territoriali: settori come la siderurgia e la metallurgia, essendo industrie energivore, stanno già subendo gli effetti drammatici del caro bollette. Sono in fortissima sofferenza e la cassa integrazione è realtà. In altri comparti le aziende stanno prendendo tempo, ritardando investimenti programmati perché con una crisi che potrebbe durare a lungo non ci sono altre scelte possibili.

Cosa si aspetta la Fiom in vista dell’autunno ‘freddo’?
Innanzitutto di intervenire sui salari per arginare la botta determinata dell’inflazione, che sarà ancora più pesante per chi finirà in cassa integrazione. Rischiamo una situazione simile a quella del lockdown con fermate produttive che si riverbereranno sul potere d’acquisto. Quindi bisogna ragionare sul precariato, riproponendo il blocco dei licenziamenti come avvenuto durante la fase più acuta della pandemia. Altrimenti si innescheranno effetti a catena disastrosi. Il ristoratore di Trieste scende in piazza con noi perché sarà più povero anche lui se 500 suoi concittadini perdono il reddito. Resto allibito perché, in questa campagna elettorale, non si parla di questioni centrali come il lavoro. Sembra quasi che esistano un mondo reale e uno elettorale.

Inflazione, cassa integrazione, lavoro povero, precarietà, salario minimo, sicurezza sul lavoro. I temi sul tavolo del prossimo governo che toccano direttamente il mondo operaio sono molteplici. Temete che in una fase emergenziale vengano di nuovo rimandati gli interventi strutturali?
L’urgenza è tale che la Fiom ha già posto 5 punti chiave: tutela del salario con l’implementazione della cassa integrazione; salute e sicurezza, argomenti sui quali non c’è una riga nei programmi elettorali; occupazione e precariato, perché ricordo che siamo l’unico Paese europeo dove esiste ancora lo staff leasing. Ma ora, prima di tutto, bisogna evitare che migliaia di precari vengano lasciati a casa. Sul lungo periodo è invece arrivato il momento di aprire una riflessione vera e partecipata sulla transizione industriale: se non investiamo nell’innovazione, ci ritroveremo con prodotti, servizi e tecnologie che non stanno più sul mercato. La Fiom vuole la trasformazione, non la dismissione delle nostre industrie. Ed esistono anche elementi in comune su cui lavoratori e imprese possono dialogare. Il costo dell’energia è il caso emblematico, eppure anche in questo frangente gli operai rischiano di più perché pagano le bollette e, se salta l’azienda, pagheranno due volte la crisi. Continueremo a porre con forza il tema della tassazione degli extraprofitti posta da Landini, perché è il fulcro di questa vicenda. Ma serve sederci a un tavolo, tutti insieme. Il governo avrebbe dovuto cercare confronto e soluzioni, invece come sempre dobbiamo prenderci l’interlocuzione attraverso il conflitto.

“I sindacati in Italia tutelano più i loro iscritti che i lavoratori”, ha detto Giorgia Meloni a febbraio. Un concetto ripetuto in occasione dell’ultimo Primo Maggio. Sondaggi alla mano, potrebbe essere a capo del prossimo governo cui dovrete interloquire in un momento critico.
Evidentemente l’onorevole Meloni non conosce il mondo del lavoro e il sindacato. Il contratto nazionale dei metalmeccanici lo facciamo per tutte le operaie e tutti gli operai, iscritti e non iscritti. Noi chiamiamo al voto tutti sulla validazione degli accordi, a partire dal contratto collettivo nazionale e in particolare nell’elezione delle rappresentanze sindacali, a prescindere dalle tessere. Il sindacato svolge un ruolo costituzionale, forse dovrebbe approfondirlo. E l’Italia è uno dei Paesi in cui l’iscrizione al sindacato è libera, mentre in altre realtà – penso agli Stati Uniti – all’interno di procedure tutti rischiano di essere obbligati all’iscrizione. Ricordo infine che i metalmeccanici hanno rischiato di perdere il posto di lavoro perché erano liberamente iscritti alla Fiom. Per difenderli, abbiamo dovuto intentare le cause. E le abbiamo vinte.

Twitter: @andtundo

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