Quando Gino Strada se ne è andato, il 13 agosto di un anno fa, l’invasione russa dell’Ucraina era probabilmente solo nella testa di Vladimir Putin, le tensioni tra Cina e Stati Uniti si limitavano ai botta e risposta di qualche mese prima tra Donald Trump e Xi Jinping e il più grande passo indietro nella ricerca di pace a livello internazionale si era registrato nei rapporti tra Usa e Iran: prima con la decisione dell’ex presidente americano di stracciare l’accordo sul nucleare di Teheran firmato da Barack Obama e poi con l’uccisione del capo delle Forze Quds dei Guardiani della Rivoluzione iraniana, Qasem Soleimani, per mezzo di un drone di Washington. Le cose sarebbero cambiate di lì a poco. Ed è solo un caso che uno dei più grandi oppositori alla guerra italiano (non un “pacifista”, come recita una delle sue frasi più celebri, ma “contrario alla guerra”) se ne sia andato appena 48 ore prima di vedere l’Afghanistan, uno dei Paesi a lui più caro, dove Emergency ha speso gran parte delle sue energie, tornare sotto il giogo di quei Taliban che lui stesso aveva conosciuto, condannato, ma anche curato in quasi 30 anni di vita della sua ong.

Cosa penserebbe oggi Gino Strada delle nuove escalation militari nel mondo? Come avrebbe riassunto l’esperienza occidentale in Afghanistan durata 20 anni? Come verrebbe etichettato lui che già in passato si era detto contrario all’invio di armi anche a sostegno di cause come quella dei curdi contro lo Stato Islamico (“perché quando uno decide di ammazzare qualcun altro, la modalità è secondaria. C’è chi taglia la gola, chi usa armi chimiche, chi bombarda coi droni: ognuno con le sue armi cerca di fare la pelle a qualcun altro”)? Sarebbe stato inserito nella lista dei “putiniani” o degli “atlantisti senza se e senza ma”? Probabilmente tra i primi, dato che, come ha ricordato recentemente anche Simonetta Gola, responsabile della comunicazione di Emergency, “per coerenza, certamente non percorrerebbe la soluzione militare”.

La prima occasione di riflessione gliela avrebbe data proprio il ‘suo’ Afghanistan. Uno dei Paesi che più di tutti lo ha coinvolto, dove Emergency ha curato fino ad oggi più di 8 milioni di persone nel corso di una guerra, quella “al terrorismo” lanciata da George W. Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre, finita così come era iniziata, con i Taliban al potere. Quell’Afghanistan che per lui è diventato la metafora di tutte le guerre, come racconta il titolo del suo secondo libro, Buskashì. Prende il nome dal gioco nazionale del Paese che consiste in una sfida tra cavalieri in cui tutti si contendono la carcassa di una capra. Al termine della contesa, il vincitore sarà colui che riuscirà a rimanere in possesso dell’animale che, però, a quel punto sarà ridotto in brandelli. Proprio come quel Paese che da decenni è finito nel mirino di grandi eserciti, di mujaheddin, di signori della guerra e terroristi. Un Paese di cui è rimasta solo una carcassa informe fatta di fame, sofferenza, mutilazioni e ovviamente morti civili.

In fondo, il suo approccio alla guerra non prevedeva di stabilire chi fosse o meno dalla parte della ragione. Il suo era un rifiuto incondizionato, senza se e senza ma, dell’uso di armi. È chiaro se si legge l’aggiunta che propose all’articolo 11 della Costituzione italiana: “Il ripudio della guerra è un valore sacro e uno dei pilastri portanti della nostra Repubblica. Ripudiare la guerra significa eliminarla dalle nostre coscienze, ma anche rifiutarsi di entrare in vecchi e nuovi conflitti, liberare il nostro Paese dalle servitù militari, uscire da ogni alleanza militare, ridurre drasticamente la produzione e l’esportazione di armi, ridurre i costi delle forze armate riconvertendoli in uso civile e sociale”. Non esistono, dunque, giustificazioni alla guerra e al suo sostegno: non lo sono oggi le aspirazioni espansionistiche di Vladimir Putin o le violenze dei Taliban, così come non lo erano in passato i Saddam Hussein, i Bashar al-Assad e nemmeno Isis. Perché rispondere alle violenze e al terrorismo con le armi è una forma di terrorismo anch’essa, nel pensiero di Gino Strada: “La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra. Il denominatore è comune, l’uso della violenza”, diceva nel 2015 nel suo discorso alla cerimonia di consegna del Right Livelihood Award 2015, a Stoccolma.

I suoi pensieri, le sue affermazioni derivavano, oltre che dalla sensibilità personale per le sofferenze dell’essere umano, dal fatto che fin dai primi Anni 90 il suo punto di vista sulle guerre di tutto il mondo è sempre stato ribaltato rispetto a quello della maggior parte della popolazione mondiale: non quello degli aggressori, degli “esportatori di democrazia” o, al massimo, degli spettatori a distanza, ma esclusivamente quello delle vittime. Vittime di guerre nelle quali non vengono considerati parte in causa ma per le quali sono i primi a pagare, compresi donne e bambini. Nel discorso di Stoccolma, Strada ricordò cosa gli ha ispirato il titolo del suo primo libro, Pappagalli Verdi: “A Quetta, la città pakistana vicina al confine afghano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette ‘mine giocattolo’, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita”.

Perché la guerra non guarda in faccia a nessuno, nemmeno ai più piccoli. Proprio in questi giorni Emergency ha fornito i dati sulle vittime di guerra in Afghanistan a un anno dalla presa del potere dei Taliban: “Da agosto 2021 a oggi sono ancora oltre 2mila i feriti da proiettili e mine ricevuti nei centri Emergency, più di 400 sono bambini”. È proprio in Pappagalli Verdi che il chirurgo milanese racconta una delle scene più traumatiche della sua carriera e che offre un chiaro esempio di come la sua visione della guerra sia stata influenzata e plasmata dalle sofferenze dei civili che lo hanno circondato per oltre 30 anni: “Un cecchino di Sarajevo si lascia intervistare in una stanza quasi buia. Mi sembra incredibile: è una donna. Una donna che spara a un bambino di sei anni? Perché? ‘Tra vent’anni ne avrebbe avuti ventisei’, è la risposta che l’interprete traduce. Il freddo diventa più intenso, fa freddo dentro. L’intervista finisce lì, non c’è altra domanda possibile”.

Twitter: @GianniRosini

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