La più grande tragedia sulle Alpi nell’era moderna. Sei vittime accertate, un numero destinato a crescere. Probabilmente fino a trenta e oltre, perché i dispersi accertati sono 14 e le possibilità di ritrovare qualcuno in vita sono considerate “ridotte a zero” dai soccorritori. Che, a causa del rischio di nuovi crolli per l’instabilità del saracco e delle alte temperature, al momento non possono operare sul terreno. Tanto che da domenica sera sono stati utilizzati solo i droni dotati di termocamera e toccherà ai meteorologi stabilire quando l’evoluzione del clima permetterà di tornare sulle rocce della Marmolada. Ecco tutto quello che si sa finora della strage causata dal distacco di un ampio fronte di ghiacciaio, quasi in vetta alla montagna.

Quanti sono i dispersi, i morti e i feriti?
Il numero è via via cresciuto con il passare delle ore. In un primo momento si pensava che i dispersi fossero una decina. Poi attraverso il conteggio delle auto rimaste parcheggiate a Passo Fedaia, dove inizia la risalita verso la vetta della Marmolada, il Soccorso alpino ha parlato di 16 persone. Quindi un nuovo aggiornamento: “C’è il rischio che i dispersi siano 20”. In mattinata il procuratore capo di Trento, Sandro Raimondi, ha detto: “Al momento i dispersi accertati sono 19”. Numero poi salito, come spiegato dai carabinieri, a 22. Ma alcuni sono poi stati rintracciati, facendo scendere a 14 il conteggio. Le vittime al momento sono 7, di cui 4 identificate.

Quale parte del ghiacciaio si è staccata e come è venuta giù?
La massa di materiale staccatosi dal ghiacciaio della Marmolada è un saracco quasi sulla vetta della regina delle Dolomiti, nella zona di Punta Penia. Una calotta, ha spiegato il Soccorso Alpino, che era lì da “centinaia di anni”. L’assessore regionale veneto alla Protezione civile, Gianpaolo Bottacin, riferisce che si tratta di un fronte di ghiaccio di 90 metri di lunghezza, con un’altezza massima di 60 metri e un volume complessivo di materiale crollato stimato in circa 300mila metri cubi, che hanno percorso un dislivello massimo di circa 700 m (da quota 3200 m a quota 2500 m circa, quota stimata di arresto delle lingue detritiche) a una velocità di 300 chilometri orari: tutti dati ricavati “da una prima valutazione speditiva, tratta da foto aeree prese nelle ore immediatamente successive al crollo, comparate con le immagini del catasto ghiacciai di Arpav (l’agenzia di protezione ambientale veneta, ndr) che rappresentano la condizione precedente. Da un punto di vista glaciologico – spiega Bottacin – è necessario sottolineare come crolli di questo tipo risentano in maniera solo parziale delle temperature registrate a livello giornaliero, poiché l’inerzia dei ghiacciai ai cambi di temperature e le risposte in termini di fenomeni di questo tipo, necessitano di tempi lunghi e di persistenza di condizioni sfavorevoli, condizioni che si stanno verificando ormai da anni“.

C’è il rischio di nuovi crolli?
Sì. “C’è il rischio concreto che un’altra massa di ghiaccio crolli”, ha spiegato Silvano Ploner del Soccorso alpino della val di Fassa. Per questo dal pomeriggio di domenica sono stati sospesi gli interventi sul terreno, la montagna è stata totalmente evacuata attraverso gli elicotteri, l’ingresso ai sentieri è presidiato dai carabinieri e si sta procedendo alla ricognizione solo attraverso i droni dotati di termocamera, ma al momento le ricerche hanno dato esito negativo.

Quali sono le cause del distacco?
Su questo la procura di Trento ha aperto un’inchiesta per disastro colposo, al momento a carico di ignoti. Dovrà comprendere se si è trattato solo del naturale distacco di un pezzo di ghiacciaio o se il disastro poteva essere previsto o evitato. Di certo, la stazione di rilevamento dell’Arpav presente in quota avevano registrato temperature record nelle ore precedenti al collasso del saracco: sabato si erano toccati i 9 gradi, durante la notte la minima era stata di 5 gradi e già alle 11 di domenica mattina la rilevazione aveva superato i 10°. Il distacco è avvenuto poco dopo le 13.30, quando quel versante della Marmolada è colpito in pieno dai raggi del sole. Lo zero termico domenica era oltre i 4.100 metri, la cima della Marmolada è a quota 3.343 metri. Sul Fatto Quotidiano, Luca Mercalli ha spiegato: “Il ghiaccio è già esposto al sole da circa un mese per via di un inverno poverissimo di neve e dei calori precoci di maggio e di giugno. Questa condizione ha generato un intenso ruscellamento superficiale con formazione di sinuosi canali detti “bédières” che quando trovano un crepaccio convogliano l’acqua fino al fondo roccioso, dove accumulandosi in sacche genera sottopressioni in grado di far letteralmente esplodere il ghiaccio che la contiene, lubrificandone anche lo scorrimento basale sulla roccia”.

Ci sono precedenti simili sulla Marmolada?
Sì. La notte del 13 dicembre 1916 un’enorme massa di neve si staccò dai costoni settentrionali della montagna e travolse il villaggio della riserva al Gran Poz, uccidendo circa trecento soldati austriaci che dormivano nelle baracche in legno costruite per la Grande Guerra. Per colpa del segreto militare e per la confusione del conflitto restò per sempre ignoto il numero esatto delle vittime. Più di recente, nel 2020, sempre a dicembre, ma in una zona non lontana da quella dove si è verificato il distaccamento di domenica, un fronte molto ampio di neve coprì e distrusse il rifugio Pian dei Fiacconi, a quota 2.626 metri. In quel periodo era ancora chiuso, la stagione invernale non era ancora stata avviata e solo per quello si evitarono vittime. La statale del passo Fedaia, che arriva ai piedi della montagna e dove c’è l’omonimo lago artificiale, spesso d’inverno viene chiusa per distaccamenti di rocce o slavine. L’8 dicembre 2011 tre bresciani furono coinvolti da una slavina partita sotto i loro piedi, in due finirono in ospedale con fratture ma se la cavarono. Anche nel 2014 altre quattro persone furono soccorse e salvate, dopo che erano finite sotto la neve: questa volta era l’1 maggio. Sempre per il ponte della Festa del Lavoro, nel 2009, due escursionisti veneti invece, trovarono la morte. Furono soccorsi e estratti, ma spirarono una volta portati in ospedale, uno il 2 e l’altro il 7 maggio.

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