Per la prima volta sono state trovate microplastiche nel latte materno, ma la loro “onnipresente presenza” nell’ambiente che ci circonda non solo rende inevitabile l’esposizione degli esseri umani a queste particelle, ma complica anche la ricerca di una fonte specifica di esposizione. Ergo: anche se ci sono delle abitudini delle mamme legate a una maggiore presenza di plastica che respirano, ingeriscono o con cui vengono a contatto, è impossibile ad oggi stabilire una relazione di causa-effetto. Questo il principale risultato dello studio per il quale sono stati analizzati 34 campioni di altrettante donne, su 26 dei quali è stata riscontrata una contaminazione. Ilfattoquotidiano.it, nell’ambito della campagna Carrelli di plastica, portata avanti insieme a Greenpeace, aveva parlato della ricerca appena pubblicata sulla rivista ‘Polymers’ con Antonio Ragusa, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Fatebenefratelli, alla guida del team che l’ha condotta. Coinvolte anche l’Università Campus Bio Medico, l’Università Politecnica delle Marche e l’Università degli Studi di Sassari. La maggior parte delle microplastiche trovate sono composte da polietilene, polivinilcloruro e polipropilene, con dimensioni comprese tra 2 e 12 microgrammi.

La microplastica nel latte materno – Le microplastiche sono state infatti classificate in base a forma, colore, dimensioni e composizione chimica. Per quanto riguarda la forma, sono stati trovati solo frammenti e sfere irregolari, mentre non sono state identificate pellicole o fibre. Il 90% delle microplastiche identificate era pigmentato, con il blu (per il 36%) e l’arancione/giallo (per circa il 17%). Per quanto riguarda le dimensioni, il 47% era compresa tra 4 e 9 microgrammi, circa il 29% era inferiore ai 3 microgrammi, mentre il 24% era di dimensioni maggiori dei 10 microgrammi. All’interno delle matrici polimeriche identificate (48 su 58), le più abbondanti sono polietilene (PE, 38%), cloruro di polivinile (PVC, 21%) e polipropilene (PP, 17%).

Le abitudini delle mamme – I dati, però, sono stati analizzati anche statisticamente, ossia in relazione a dati specifici di pazienti come età, l’uso di prodotti per la cura personale contenenti composti plastici e il consumo di pesce e crostacei, bevande e alimenti contenuti in imballaggi di plastica. “Trattandosi di un numero esiguo di campioni – spiega Ragusa a ilfattoquotidiano.it – non abbiamo trovato una relazione chiara tra tutti i comportamenti analizzati e la presenza di plastiche, anche se abbiamo potuto osservare che la quantità di plastica contenuta nel latte delle mamme rispecchia alcuni loro comportamenti e abitudini”. Un esempio riguarda l’utilizzo della mascherina, purtroppo necessario nel corso di alcuni dei mesi durante i quali lo studio è stato effettuato. “Abbiamo trovato una grande differenza – aggiunge Ragusa – nelle donne che allattavano durante la pandemia (quindi con la mascherina) e quelle che allattavano prima del lockdown”. Il latte delle prime, proprio per l’utilizzo della mascherina, conteneva molta più plastica. “Credo che con un numero di campioni più alto – spiega lo scienziato – si sarebbe potuta trovare una relazione più chiara con diverse delle abitudini analizzate”. Ci sono, però, altre spiegazioni. La mancanza di associazione con l’uso di prodotti per la cura personale, per esempio, per gli autori è probabilmente spiegata considerando che il contatto dermico ha un impatto minore come via di esposizione, poiché solo le particelle superiori ai 100 nanometri possono attraversare la barriera della pelle. “Al contrario – aggiungono – l’assenza di una relazione con le abitudini alimentari delle madri è più difficile da spiegare, poiché la principale via di esposizione a microplastiche è rappresentata proprio dall’ingestione”. In effetti, la presenza di microplastiche è stata riscontrata in diversi cibi, inclusi pesce, crostacei, ma anche sale da cucina, zucchero, acqua in bottiglia, latte, miele, bustine di tè di plastica, oltre che (in misura maggiore) in utensili da cucina, piatti e imballaggi.

L’onnipresente presenza – Dunque è proprio l’assenza, almeno con questi numeri, di una relazione significativa tra abitudini delle mamme e presenza di microplastiche a suggerire agli autori la conclusione che “l’onnipresente presenza e l’uso diffuso di microplastiche rendono inevitabile l’esposizione umana”. Ma queste particelle che entrano nell’organismo umano principalmente per ingestione, inalazione e contatto della pelle, rendono anche molto difficile isolare una fonte specifica di esposizione rispetto a un’altra. Impresa che diventa impossibile nel caso di campioni molto esigui. “Una volta interiorizzate però – spiega lo studio – le microplastiche possono passare attraverso le membrane cellulari e arrivare in diverse parti del corpo, innescando specifici meccanismi cellulari. Pertanto – aggiungono gli autori – il potenziale danno per la salute causato anche dall’accumulo di microplastiche è di grande preoccupazione, come confermato da numerosi studi che riportano evidenti effetti tossici su diversi animali, organismi marini e linee cellulari umane”.

Articolo Precedente

Siccità, Fontana: “Se non piove, si può andare avanti fino al 10 luglio. Oltre no”. L’allarme dell’Anbi: “Agricoltura a rischio in Lombardia”

next
Articolo Successivo

Siccità, nel bacino del Po senza acqua da 120 giorni. “Per colmare il deficit servirebbero mesi. Le piante? Dimezzate”

next