di Giuliano Checchi

Ormai Luigi Di Maio è definitivamente inserito nel percorso del politico politicante di professione. Questo anche alla faccia di tutti i nani e le ballerine che per anni l’hanno ridicolizzato e sbeffeggiato, e oggi invece se lo corteggiano.

Comunque sia, pare evidente che non abbia più bisogno del M5S. E che il M5S non abbia più bisogno di lui. Spiace, perché i suoi meriti sono tanti, e grandi. Ma è inutile fingere di non vedere. Ed è inutile fare gli ingenui e sperare che “tutto si ricomponga”. Non vedo ormai come Di Maio possa (o voglia) tornare sui suoi passi. Anche il termine “ricomporsi” è quasi ridicolo, perché con Giuseppe Conte intesa e sintonia non ci sono mai state. Non è certo un caso che Di Maio si sia espresso all’indomani del responso del tribunale, favorevole a Giuseppe Conte. Con le sue dichiarazioni, di fatto, si è messo fuori dal M5S. E Grillo, nel suo intervento seppur sibillino, pare aderire a questa interpretazione.

Il M5S deve darsi un’organizzazione sulla base di un’identità che non può essere quella della politica di palazzo. Quella dei Calenda, dei Brunetta, delle Carfagna e dei Renzi che si muovono solo per strategie di poltrone, influenze e giochi di potere. Se Di Maio ha finito per trovarsi a suo agio in queste dinamiche prenda i suoi stretti fedelissimi e vada per la sua strada. Se il M5S deve restare il MoVimento che lavora per la tutela di chi prende 500 euro al mese, per l’ambiente, per l’ecosostenibilità, per la legalità, per il salario minimo, adesso la sua guida e il suo riferimento è Giuseppe Conte. Come, del resto, si è chiaramente espressa la base elettorale.

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