Ovvio che cascasse nel vuoto, dopo tanti anni. Eppure la testimonianza del generale Mario Grillandini al processo ai mandanti della strage di Bologna ha portato una novità importante. L’anziano ex agente del Sismi, ottantasei anni, lucido e cortese, parlando nell’Aula della Corte d’Assise l’11 giugno 2021, ha svolto un innocente racconto della sua missione in Uruguay per il recupero dei documenti di Licio Gelli. Il Sismi, dunque, si era dato da fare subito, sin dall’agosto dell’81, ma la missione fu un totale fallimento. Infatti, l’archivio di Gelli non è mai stato violato e i nostri servizi, alla ricerca delle preziose carte, pagarono milioni per vedersi prendere in giro. Dalla testimonianza di Grillandini scopriamo che quei documenti sarebbero finiti alla Cia.

Andò così: nell’estate del 1981 il capo del nostro servizio, Nino Lugaresi, l’uomo che aveva ricevuto da Giovanni Spadolini l’incarico di ripulire i servizi dopo lo scandalo P2, venne avvisato dai colleghi della Cia di Roma che le autorità di Montevideo avevano appena perquisito una villa di Calle Juan Manuel Ferrari, nell’esclusivo quartiere Garlasco della capitale. Era la casa di Licio Gelli e dentro c’era il suo archivio. Lugaresi organizza immediatamente l’operazione Minareto, nome in codice della missione per riportare a casa il ricco bottino. Incarica Grillandini che parte senza indugio, va a Rio dove organizza tutto con il capo centro locale, Ennio Lo Magro. In Brasile fa molto caldo: arrivato a Montevideo, invece, trova pieno inverno, tanto che deve comprarsi un cappotto. Attende che venga convocato ma la delusione sarà totale. “La scrematura era stata fatta dalla Cia. A noi arrivarono una settantina di fascicoli senza grande importanza”. L’incontro con l’ispettore Victor Castiglione, che aveva fatto parte della squadra messa in piedi per recuperare i dossier, fu piuttosto frettoloso “perché il poliziotto aveva il fuoco di Sant’Antonio”, ricorda Grillandini, “non vedeva l’ora di andarsene, io gli presentai la mia richiesta, cioè di entrare in possesso dell’archivio di Gelli, e lui mi riferì che parte dell’archivio, buona parte dell’archivio, era stata requisita dalla Cia, una parte era stata trattenuta dai servizi uruguayani perché riguardavano la sicurezza nazionale interna e il resto era stato trasmesso ai Ministero degli Interni uruguagio”. Materiale che poi alla fine arrivò pian piano in Italia, anche con rilevanti costi, ma che non conteneva nulla di significativo sulle attività politiche e ed economiche di Gelli.

Interpellata da ilfattoquotidiano.it, Piera Amendola, tra le massime esperte di P2, già responsabile dell’Archivio della Commissione P2 e stretta collaboratrice dell’onorevole Tina Anselmi, dice che siamo di fronte ad un fatto gravissimo. “L’onorevole Anselmi, che fino agli ultimi giorni della sua presidenza della Commissione P2 cercò di fare luce sull’archivio uruguayano di Gelli continuando a sollecitarne l’acquisizione, non è stata informata dalle autorità istituzionali e dal Ssmi(il Servizio segreto militare post P2) di una circostanza così importante: l’archivio era in possesso della Cia, ed era pertanto a questo servizio segreto americano collegato che sarebbe stato necessario rivolgersi per farlo tornare in Italia. Lo si potrebbe fare anche oggi”. L’aspetto più attuale di questa storia, che sembra vecchia ma non lo è, sta proprio nelle parole della studiosa, oggi nel consiglio direttivo dell’Archivio Flamigni: basta una semplice richiesta ai servizi di un Paese alleato per guardare oltre il muro dei tanti silenzi. Il presidente Mario Draghi ha già dato prova di voler sostenere il processo di trasparenza delle carte, ora potrebbe fare le sue mosse. A tanti anni di distanza magari si riesce a mettere insieme qualche carta fondamentale in una storia in cui tutti hanno taciuto. Da Lugaresi a Gelli che disse la sua, prendendosi gioco degli investigatori: “Gli elenchi della P2? Erano a Castiglion Fibocchi ma gli uomini della Finanza non li videro così in aprile ho raccolto tutto, ho fatto una ventina di pacchi e, dopo averli sigillati in casse di legno, ho spedito tutto in Uruguay. Lì, poi, ho provveduto a distruggere tutto”. Secondo Castiglione, invece, che ne parlò a un quotidiano indipendente del suo paese, una delle cartelle più voluminose riguardava il Banco Ambrosiano e, sempre a suo dire, “l’allora ministro degli Interni uruguayano, il generale Yamandú Trinidad, diede l’ordine di restituire al figlio di Gelli i documenti originali e di consegnare le fotocopie al comando della polizia”.

Insomma, nessuno ha detto fino in fondo la verità che ora conosciamo grazie ad una ex spia arrivata dal nulla a schiarirci le idee. E a raccontare in aula che concluse la sua carriera perché si innamorò di una sua fonte. “Capita…”, ha detto davanti ai giudici. Per questo motivo l’11 luglio del 1985 lasciò il servizio dove proprio non sopportovano quel comportamento. Proprio così, nel Paese dei grandi depistaggi al generale Grillandini non fu perdonato l’amore incauto.

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