Ha ‘vinto’ 211 a 148, ma la sua maggioranza si riduce poco oltre il minimo indispensabile. Boris Johnson si è salvato dal voto di sfiducia dei Tories sul Partygate e resta leader dei conservatori e quindi primo ministro del Regno Unito, ma nonostante predichi ottimismo bisognerà vedere nei prossimi mesi cosa accadrà alla sua leadership. Alla decisione interna al partito si è arrivati dopo settimane in cui il malcontento dei colleghi è sembrato crescere gradualmente, anche in seguito alla pubblicazione del rapporto Gray sulle feste tenute dai membri dell’amministrazione, alcuni dei quali hanno già dato le proprie dimissioni. Con il voto segreto interno al gruppo, ultimo viatico per le possibili dimissioni sulla questione delle feste a Downing Street con il Regno Unito in lockdown, la vicenda sostanzialmente si conclude visto che il regolamento del gruppo Tory non permette più di un voto di sfiducia all’anno, salvo cambiamenti. E così Johnson, citato dalla Press Association, ha detto che il suo governo può ora “andare avanti” dopo il risultato “convincente” e “decisivo”.

Vero, da un lato, visto che le conseguenze per il primo ministro inglese si sono limitate a una multa inflitta dalla polizia, se si esclude il calo nei sondaggi. Ma è realtà anche l’evidente spaccatura nel partito, visto che la maggioranza richiesta era 180. Divisioni che lo indeboliscono e potrebbero portare a nuovi scossoni nel futuro su altri temi dell’agenda politica. Lo scrutinio segreto sul suo destino immediato, consumato in 2 ore di votazione fra i 359 deputati della super maggioranza conquistata alla Camera dei Comuni nel dicembre 2019, ha infatti decretato una vittoria mutilata. I 148 favorevoli alla sfiducia sono un salasso, se si considera che la fiducia di un centinaio di grandi elettori appariva blindata in partenza, trattandosi di ministri, sottosegretari o titolari d’incarichi governativi junior “a libro paga” del suo gabinetto. “L’inizio della fine”, addirittura, secondo alcuni commentatori, che notano come il dissenso sia stato in proporzione superiore a quello inflitto nel 2018 a Theresa May, che pure se la cavò, ma dovette dimettersi 5 mesi dopo. O a Margaret Thatcher, che nel 1990 – offesa dal tradimento di più franchi tiratori di quanto non si aspettasse – gettò alla fine la spugna nel giro di poche ore.

La fiducia è insomma stata più risicata del previsto, macchiata dalle bocciature di decine di deputati di ogni orientamento – moderati o brexiteer, veterani o esordienti – incluse le pugnalate in extremis di vecchi johnsoniani come Jesse Norman o di personalità sopra le parti come il dimissionario zar anti corruzione John Penrose, il quale gli ha rinfacciato apertamente l’accusa di aver violato l’integrità degli standard ministeriali (ossia d’aver mentito) sul Partygate. Parole che non promettono nulla di certo per il futuro di BoJo, a dispetto dell’anno di grazia contro ogni ulteriore tentativo di sfiduciarlo che dopo un voto superato le norme di casa Tory gli garantiscono. Norme peraltro modificabili, ha già avvertito il presidente del Comitato 1922.

Al voto all’interno del partito si è arrivati dopo che il numero delle lettere di sfiducia inviate da deputati ribelli al Comitato 1922 – organismo interno al gruppo Tory incaricato di raccogliere iniziative del genere e d’indire nel caso le votazioni sul leader di turno – era salito a 54 nel corso del week-end. Diversi contestatori hanno fatto in modo che la loro adesione fosse formalizzata non prima di domenica pomeriggio, in modo da far scattare l’annuncio dopo la fine dei quattro giorni di celebrazioni pubbliche del Giubileo di Platino senza turbare la festa per i 70 anni di regno della regina Elisabetta chiusasi proprio domenica.

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