La lotta per la democrazia di Joe Biden si schianta contro l’esigenza di abbassare il prezzo del petrolio. Così, se il sostegno all’Ucraina rappresenta per il capo della Casa Bianca “la difesa della democrazia nel mondo”, evidentemente lo stesso zelo non viene messo nel garantire la difesa dei diritti umani in Medio Oriente. La conseguenza è che, con i prezzi del petrolio alle stelle a causa della guerra, il presidente americano dimentica la sua promessa di relegare l’Arabia Saudita a “Stato paria”, dopo l’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, e volerà a Riyad per concordare un aumento della produzione che dia un po’ di respiro alle economie occidentali.

Si tratta dell’ennesima promessa tradita da un presidente che in campagna elettorale aveva assicurato di voler rompere con la strategia trumpiana della realpolitik a tutti i costi in nome dell’America First per riscoprire l’importanza della salvaguardia dei diritti umani nel mondo. Che la linea non fosse diversa da quella del suo predecessore lo si era capito nella mancanza di riforme e provvedimenti sulla questione migratoria e adesso a confermarlo arriva anche questa radicale inversione di rotta sui rapporti con la monarchia del Golfo.

La presidenza non ha ancora confermato la missione, ma la stampa americana la dà ormai per certa. Lo stesso Biden ha detto che non cambierà idea sul fatto che l’Arabia Saudita sia una nazione paria ma ha ricordato che fa parte del suo lavoro di presidente lavorare alla pace in Medio Oriente. La Nbc cita funzionari dell’amministrazione secondo i quali la trasferta in Israele e Arabia Saudita è stata rimandata a luglio: “Stiamo lavorando a un viaggio in Israele e Arabia Saudita per un summit del Consiglio di cooperazione del Golfo – hanno detto – Stiamo lavorando per la conferma delle date”.

A rendere il cambio di rotta ancora più radicale c’è il fatto che, con ogni probabilità, l’interlocutore del presidente Dem sarà il principe ereditario Mohammad bin Salman, colui che nel 2016 si presentò come grande riformatore con il suo piano Vision 2030 per far riemergere la monarchia degli al-Saud dall’oscurantismo che l’ha caratterizzata in questi decenni aprendola ai mercati internazionali. Piano che si è rivelato fino ad oggi più uno specchietto per le allodole col compito di aiutare i Paesi occidentali a giustificare una nuova apertura a Riyad, con alcune concessioni in particolar modo legate ai diritti delle donne, senza che la repressione del dissenso, la mancanza di trasparenza e il rispetto dei principali diritti umani e delle libertà individuali abbiano registrato sostanziali cambiamenti. È proprio bin Salman, secondo un report dell’intelligence americana, a essere inoltre indicato come il mandante dell’omicidio dell’editorialista di origine saudita del Washington Post.

Ma nessuna difesa dei diritti umani, legittimamente sbandierata per giustificare il sostegno incondizionato al governo di Volodymyr Zelensky, sembra reggere di fronte alla necessità di frenare l’ascesa dei prezzi dell’energia. Così, l’appoggio del secondo produttore di petrolio mondiale diventa fondamentale. Anche in virtù dell’accordo raggiunto nel corso dell’ultimo vertice dell’Opec che ha dato il via libera a un incremento della produzione di greggio di 648mila barili al giorno a luglio e agosto. Numeri che potrebbero non essere sufficienti, richiedendo un ulteriore aumento anche in autunno. E l’unico Paese sicuramente in grado di imprimere un’accelerazione alla sua produzione è proprio l’Arabia Saudita, elogiata da Biden nelle scorse ore per aver contribuito a prorogare la tregua nel conflitto in Yemen che li vede a capo dell’alleanza anti-Houthi e dove si assiste ormai da 7 anni una crisi umanitaria devastante.

Il cambio di rotta americano era già stato anticipato dalle dichiarazioni del segretario di Stato, Antony Blinken, che a un evento organizzato per il centenario della rivista Foreign Affairs aveva definito l’Arabia Saudita “un partner fondamentale per noi nell’affrontare l’estremismo nella regione, nell’affrontare le sfide poste dall’Iran“, auspicando “l’espansione degli Accordi di Abramo” voluti da Donald Trump.

D’altra parte, che la condivisione di interessi potesse far crollare le posizioni assunte dall’amministrazione lo si era già notato a metà maggio. E di mezzo c’era sempre il petrolio. Washington meno di un mese fa ha deciso di allentare alcune delle pesanti sanzioni nei confronti del Venezuela, autorizzando la Chevron a trattare un nuovo accordo con la Pdvsa, la compagnia petrolifera statale di Caracas. Anche in quel caso, a sbloccare l’impasse lunga anni, caratterizzata da scontri e accuse reciproche, è stata la crisi energetica legata al conflitto in Ucraina e la necessità di individuare nuovi canali di approvvigionamento che hanno portato l’amministrazione Usa a guardare anche al maggior produttore di greggio del Sud America.

Twitter: @GianniRosini

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