Almeno su una cosa sono tutti d’accordo anche perché, cifre alla mano, sarebbe difficile non esserlo. Gli stipendi italiani sono bassi. E, soprattutto, sono gli unici tra quelli dei paesi Ocse a non essere cresciuti negli ultimi 30 anni. Dal 1990 ad oggi sono anzi arretrati del 2,9%. In Francia sono invece saliti del 31%, in Germania del 33%, in Spagna 6,2%, in Grecia del 30%. In questo scenario già di per sé depresso si abbatte ora la ripresa dell’inflazione che, di fatto, alleggerisce ulteriormente le buste paga. Anche se lo stipendio rimane uguale (o sale un po’), in realtà scende visto che i prodotti costano di più. Secondo diverse stime, a fine 2022 i lavoratori si troveranno in tasca il 5% in meno in termini reali rispetto all’anno prima. Sui motivi dell’esiguità dei nostri salari e sui possibili rimedi, tuttavia, ognuno ha le sue teorie e le sue soluzioni. Il rischio è che alla fine si parli molto ma si faccia poco o niente.

Negli ultimi giorni sono intervenuti sul tema Confindustria, Banca d’Italia, sindacati, politici. Spesso viene tirata in ballo la quasi mitologica “produttività”, termine che in sostanza indica il valore di quello che un lavoratore riesce a produrre in un determinato intervallo di tempo. Questa variabile dipende da diversi fattori ma, soprattutto, da cosa costruisce il lavoratore (un conto è un iphone e un altro un paio di infradito) e di quali strumenti dispone per fare il suo lavoro. Visto che le ore lavorate dai dipendenti italiani sono superiori a quelle dei colleghi di gran parte dei paesi europei è difficile sostenere che il problema riguardi l’impegno dei lavoratori. Più verosimile ipotizzare che operino con sistemi e strumenti meno avanzati rispetto a quelli di altri paesi, oppure che costruiscano prodotti che valgono meno. Aspetti che dipendono fondamentalmente dal livello di investimenti delle imprese. Del resto da decenni la spesa di imprese private per ricerca e sviluppo in Italia langue intorno allo 0,5% del Prodotto interno lordo, meno della metà rispetto a Francia o Germania. Opportuno ricordare in ogni caso che, sebbene meno che altrove, la produttività italiana negli ultimi 20 anni è salita di circa il 5% mentre gli stipendi sono rimasti al palo. La produttività italiana resta bassa ma gli stipendi lo sono ancora di più e così il costo del lavoro in Italia rimane modesto, al di sotto della gran parte dei paesi Ocse.

Tagliare i contributi a carico di lavoratori e imprese – Ma Confindustria da questo orecchio non ci sente, secondo gli imprenditori il problema sta tutto nel “cuneo fiscale”, ossia la differenza tra quanto un datore di lavoro versa al lordo (ossia incluse tasse, contributi sociali a carico dello stesso lavoratore e del datore di lavoro, etc) e il netto, ovvero la somma che finisce nelle tasche del dipendente. Secondo Confindustria è qui e solo qui che bisogna agire, riducendo gli oneri a carico delle imprese con un taglio da 16 miliardi di euro. In sostanza l’associazione degli industriali chiede che a pagare l’aumento degli stipendi sia lo Stato senza che gli imprenditori mettano un solo euro. Anzi, il taglio del cuneo, andrebbe per un terzo a favore delle stesse imprese. Tutto bellissimo. Se non che, tagliare i contributi significa che lo Stato si trova comunque a dover finanziare pensioni e altre misure di welfare per i lavoratori. Può farlo in tanti modi: uno è quello di porre l’onere a carico della “fiscalità generale”, insomma alzando le tasse.

Quello che il lavoratore riceve con una mano viene ripreso da un’altra. È vero che il cuneo italiano è alto ma negli anni è stato ridotto in modo significativo ed è oggi inferiori a quello di Germania, Francia, Austria o Belgio. E andrebbe anche ricordato che il prelievo sui profitti di impresa è oggi tra i più bassi d’Europa e al di sotto di quello statunitense. La quota che proviene dai guadagni delle imprese sul totale del gettito si ferma al 4,9% contro il 5,1% di Francia e Stati Uniti o il 7% della Gran Bretagna. L’idea di imprese italiane tartassate non sembra trovare grandi riscontri nei dati. Del resto salari bassi inducono le imprese ad adagiarsi sul costo del lavoro piuttosto che concentrarsi sull’ innovativi e sui miglioramenti del processo. È anche per questo che provvedimenti come il salario minimo aiutano, nel lungo termine, ad elevare il livello del sistema produttivo a beneficio di tutta l’economia.

Tassare le rendite finanziarie – Sul fronte sindacale il segretario generale della Cgil Maurizio Landini propone oggi di finanziare gli aumenti principalmente tassando le rendite finanziarie. Del resto da anni anche istituzioni “insospettabili” come Ocse o Fondo monetario internazionale suggeriscono di spostare parte del carico fiscale dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Landini più nel dettaglio ipotizza anche un incremento del prelievo sugli extraprofitti e un contributo di solidarietà una tantum. Entrambe queste misure hanno però il difetto di essere variabili (non sempre ci sono extraprofitti) e, appunto, estemporanee mentre gli aumenti degli stipendi sarebbero strutturali e duraturi. Forse anche per questo il leader della Cgil contempla la possibilità di ricorrere anche a nuovo debito pubblico. Sulla stessa linea il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri che invita a “rinnovare subito i contratti per recuperare il potere d’acquisto” dicendosi contrario all’ipotesi di misure una tantum: “Non siamo d’accordo con i bonus. I salari dei lavoratori sono mangiati dall’inflazione”. Il riferimento di Bombardieri è a quanto sostenuto pochi giorni fa dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.

No alla rincorsa – Visco ha invitato fare in modo che non si inneschi una rincorsa tra prezzi e salari, la cosiddetta spirale inflazionistica. Niente aumenti proporzionati all’inflazione insomma, secondo il governatore che suggerisce invece di usare misure “spot” come bonus e una tantum. E poi l’immancabile richiamo alla “produttività” che deve crescere “anche con il rilancio degli investimenti del Pnrr”. La capo economista del Fondo monetario internazionale Gita Gopinath pochi giorni fa ha invitato però i governi a non essere eccessivamente intimoriti dalla dinamica prezzi salari. In questo momento, ha spiegato, la priorità dovrebbe essere quella di sostenere il potere d’acquisto delle famiglia, altrimenti il rischio di recessione si fa più concreto. Un appello simile è arrivato anche dal commissario al lavoro Ue Nicolas Schmit.

“Piuttosto che aumenti salariali insostenibili che creano una spirale dannosa dei prezzi salariali, la risposta per rafforzare il potere d’acquisto delle persone deve essere quella di attuare un’agenda di crescita proattiva che sostenga la competitività delle imprese europee“, ha avvertito oggi BusinessEurope che rappresenta 40 associazioni di imprese e datori di lavoro in 35 paesi europei: “I governi devono affrontare la carenza di manodopera e competenze che minano la ripresa e perseguire politiche che aumentino la produttività e l’innovazione perché è questa la base per costruire una reale prosperità e creare posti di lavoro”.

Il governo tentennaSullo sfondo sta il governo che, per ora, si limita a lanciare inviti alle parti sociale per trovare un qualche tipo di accordo. Lo scorso 30 maggio il ministro per l’Innovazione Tecnologica Vittorio Colao ha sorpreso gli imprenditori invitandoli ad aumentare i salari, ricordando come il governo abbia messo in campo importanti agevolazioni fiscali per favorirli. “Il tema del cuneo fiscale, sollecitato dal presidente di Confindustria che non è mai riuscito a passare, ora potrebbe tornare di attualità” dice il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Ma il collega della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta spiega “l’ipotesi di taglio del cuneo fiscale deve essere ancora discussa nel governo. Quindi ogni idea che viene è buona”, ripetendo poi la solita litania: “le retribuzioni devono crescere con la crescita della produttività” e bocciando la proposta di Landini.

Il “titolare” del dossier, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha ricordato qualche giorno fa che “nel nostro Paese i salari sono cresciuti addirittura meno della produttività. Infine, una tantum o in modo strutturale, siamo tutti d’accordo che qualche aumento debba essere riconosciuto. Poi discutiamo se è meglio che siano permanenti o siano legati alla fiammata inflazionistica”. “Sui salari e sulla qualità del lavoro abbiamo sottoposto idee alle parti sociali e convocheremo nelle prossime settimane un confronto, che in via informale è già aperto, perché credo sia urgente aiutare chi si trova in condizioni di lavoro povero, chi percepisce un salario più basso e chi invece vede eroso il proprio potere d’acquisto dall’inflazione, quindi tutta la massa dei lavoratori italiani”. Orlando vorrebbe in particolare introdurre un salario minimo per legge, far valere i contratti collettivi “principali” di ogni settore per tutti gli occupati di quel comparto o almeno sperimentare il minimo legale nei settori in cui i lavoratori sono più fragili. La seconda ipotesi richiede, in assenza di un accordo tra sindacati e imprese, una legge sulla rappresentanza che ancora manca.

Tre giorni fa il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha però ammesso: “Non sarà semplicissimo arrivare ad una legge e anche il passaggio del recepimento della direttiva europea sarà un passaggio non banale, perché i punti di partenza tra le forze politiche e sociali sono molto distanti. Ma aiuterebbe molto se nel frattempo si riuscisse a maturare una tappa intermedia che è quella della proposta sul tavolo”, cioè il “salario minimo all’italiana”. Orlando ha quindi sottolineato come sia “essenziale è affrontare il tema della rappresentanza, su questo qualche stretta dobbiamo provare a darla”. Aspettiamo e speriamo.

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