I combattimenti in Ucraina proseguono, con una apparentemente lenta ma relativamente costante acquisizione di controllo russo sui territori ucraini. Dopo Mariupol, ora sembra prossima alla totale occupazione anche la città di Severodonetsk. Ovviamente, in caso di una controffensiva ucraina tali territori potrebbero in futuro tornare sotto il controllo di Kiev. Movimenti avanti e indietro della linea di contatto sono prevedibili in una guerra combattuta con unità meccanizzate e corazzate tra forze armate tra loro non così sbilanciate per capacità, come lo erano invece quelle che abbiamo visto in Iraq nel 1990 e nel 2003. Comunque, al momento, la situazione operativa appare svilupparsi in favore dei russi.

Il conflitto durerà? Certamente i combattimenti dureranno fino a quando entrambe le parti sul terreno non saranno convinte che sia per loro meno conveniente continuare a combattere anziché cercare un accordo. Accordo che non potrà prescindere dalle posizioni che in quel momento saranno state raggiunte sul terreno, in quanto il cessate il fuoco, quando ci sarà, cristallizzerà la situazione sul terreno. Successivamente, solo con gli accordi di pace potranno esservi ritiri dalle zone occupate o scambi di territori. Non prima. Lasciamo, pertanto, da parte sia i fantasiosi “piani di pace” elaborati da consiglieri di Di Maio o di Salvini sia le dichiarazioni roboanti dei leader in guerra stile “vincere e vinceremo in cielo terra e mar”. Dichiarazioni che tutti (Zelensky, Putin, ma anche Biden, Johnson, Von der Leyen e Michel) fanno per motivare la propria opinione pubblica e in cui non credono neanche loro (o così almeno ci auguriamo per rispetto alle loro capacità intellettuali). Ciò premesso, chi ritenga che l’UE possa avere un impatto sulle operazioni in corso con l’arma delle sanzioni, probabilmente si illude.

Prendiamo, ad esempio, l’ultimo accordo raggiunto dall’UE in merito al bando del petrolio russo. Accordo sicuramente difficile da conseguire e che potrebbe essere politicamente significativo per dimostrare la coesione della UE. Meno significativo, però, in relazione alla possibilità di incidere sulla condotta di operazioni militari russe in Ucraina. Divieto d’importazione che avrà effetto solo da gennaio (molti cittadini europei si augurerebbero che ben prima di allora si possa giungere ad un cessate il fuoco abbastanza stabile se non ad un accordo di pace) ma che già da subito comporta un aumento del costo del greggio e, pertanto, dei relativi introiti russi. Divieto, peraltro, applicato da gennaio solo ai trasporti via mare, ovvero a quelli che oltre ad essere estremamente flessibili (in quanto la petroliera oggi diretta in un paese UE può poi dirigersi altrove) non sono di fatto tracciabili: la Russia vende il carico a una nazione terza che a sua volta, a prezzi maggiorati, lo rivende a una “disciplinata” nazione UE. Tutto ciò senza citare le eccezioni, comprensibili, a favore di alcuni paesi (Repubblica Ceca, Bulgaria, Ungheria).

Ovviamente, le sanzioni non sono pensate per avere effetti immediati ma per colpire l’economia di un paese nella speranza che il malcontento popolare porti ad un cambio di regime. Come ci si augurava che avvenisse con le sanzioni al Venezuela, all’Iran degli Ayatollah, alla Corea del Nord, a Cuba, alla stessa Russia dopo l’occupazione/annessione della Crimea del 2014. Già questi precedenti di (scarso) successo potrebbero far meditare in merito all’efficacia dello strumento. Inoltre, si continua a ripetere che le sanzioni servono per “impedire a Putin di finanziare la sua guerra”. Obiettivo meritorio, che potrebbe essere forse conseguito nel caso di un conflitto della durata di diversi anni, ma che appare illusorio pensare di conseguire in tempi brevi.

Peraltro, a parte le tempistiche, in che modo questo tipo di sanzioni dovrebbe incidere sulla capacità bellica della Russia? È certamente vero che la condotta di una guerra porti al consumo di enormi risorse. Il punto è, però, vedere quante di tali risorse siano già nella disponibilità di chi le dovrà consumare. Ovvero, fino a quale punto la Russia per garantire l’afflusso costante delle risorse necessarie per alimentare i combattimenti abbia bisogno degli introiti economici che le potrebbero venir meno in relazione alle sanzioni.

La prima e più importante risorsa di cui la guerra ha bisogno è il capitale umano. Non solo per le perdite che si soffrono, ma anche per la sottrazione dei combattenti alle altre attività produttive che in tempo di guerra sono sotto stress. La Russia, però, al momento non ha attivato neanche una mobilitazione su larga scala, limitandosi a reclutare dei volontari, e dispone di forze militari in parte ancora non esposte ai combattimenti.

Altre risorse essenziali sono i mezzi, sistemi d’arma, munizionamenti necessari per integrare quelli al fronte e rimpiazzare quelli distrutti, perduti o consumati. La Russia in questi settori appare decisamente autosufficiente, disponendo di una collaudata industria della difesa. Tradizionalmente la Russia è stata negli ultimi vent’anni il secondo esportatore di armi al mondo (mediamente con una fetta tra il 20% e il 25% del mercato mondiale), mercato dominato ovviamente dagli USA, piazzandosi al terzo posto solo nel 2021 stante il sorpasso francese. Le produzioni dell’industria bellica russa sono sicuramente meno sofisticate di quelle statunitensi, ma hanno un loro significativo mercato in Cina, India, Vietnam, Egitto, vari paesi asiatici, mediorientali e africani, tutti paesi con cui continuerà a commerciare senza problemi.

Quindi, la Russia ha la capacità in proprio di integrare e potenziare quanto impiega sul fronte senza bisogno di acquisire dall’estero (possibilità cui anche in passato la Russia ha fatto ricorso molto di rado)

Teniamo conto che la Russia, oltre ad essere una grande esportatrice di combustibili fossili e prodotti energetici, ha un’importante esportazione metallurgica (acciaio, di cui Mosca è il 5° produttore al mondo, rame, leghe di rame, nichel) e prodotti dell’industria chimica. Ovvero, Mosca anche senza rivolgersi al mercato esterno dispone in abbondanza di quasi tutto ciò che può servire alla sua industria bellica per la componentistica e per il munizionamento. Le “terre rare”, che servono per alcune componentistiche di alta tecnologia, possono agevolmente esserle fornite dalla Cina, che già oggi, con un inter-scambio valutato in oltre 110 miliardi di dollari, è il suo primo partner commerciale.

Essendo anche esportatrice di prodotti alimentari e materie prime per la loro produzione, la Russia appare autosufficiente anche nel settore alimentare. In sintesi, le varie tranche di sanzioni economiche che l’UE sta faticosamente adottando serviranno sicuramente a impoverire la Russia, forse a far montare un certo malcontento nel paese e, nel lungo termine, forse a portarla alla bancarotta. Ma non serviranno a ridurne le capacità militari nel breve termine e di per sé non avranno effetti sui combattimenti a meno che il conflitto si protragga per anni.

Resta da vedere quanto possa essere nell’interesse europeo ritrovarsi ai propri confini non solo un’Ucraina da ricostruire, con Nord Africa e Medio Oriente sempre più impoveriti, ma anche una Russia in bancarotta e preda delle lotte di potere intestine praticamente inevitabili ove (come molti si augurano) le sanzioni dovessero condurre alla caduta dell’attuale leadership autocratica.

Sicuramente si starà anche pensando quanto un simile quadro di situazione potrà gravare sulla UE e sulla sua coesione in termini di pressione migratoria e di eccellenti occasioni di acquisti a prezzi di svendita da parte del Dragone cinese. Ovvero, quanto vi si sta pensando in Europa, perché in altri continenti presumo che qualcuno vi stia già pensando.

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