Come difendersi da un licenziamento a causa dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale? Come può una persona transgender denunciare un ambiente degradante e ostile, o un colloquio di lavoro basato su criteri che niente hanno a che vedere con le competenze professionali? Se è vero che spesso le vittime non scelgono la strada del tribunale, in Italia le leggi per affrontare questo tipo di situazioni ci sono. Non solo: la tutela della normativa è molto articolata.

Lo spiega nel dettaglio l’avvocato Francesco Rizzi di Rete Lenford, associazione che da 15 anni si batte per il rispetto dei diritti della comunità lgbti+ e che oltre a offrire tutela legale, si occupa di fare formazione e divulgazione. “L’Italia ha strumenti normativi molto chiari, di derivazione europea, che difendono sia dalle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, sia da quelle fondate sull’identità di genere”.

In particolare si tratta di due leggi diverse. Il primo è il decreto legislativo 216 del 2003, che ha recepito una direttiva Ue e che impone la parità di trattamento sul luogo di lavoro, indipendentemente dall’orientamento sessuale, ma anche dall’età, dalla religione e dalle convinzioni personali, e da eventuali disabilità fisiche. C’è inoltre il Codice per le pari opportunità del 2006, basato a sua volta su altre direttive europee, che stabilisce il principio di parità di trattamento tra uomini e donne per l’accesso al lavoro. “In questo caso – chiarisce Rizzi – anche se il fattore dell’identità non è espressamente menzionato, la tutela esiste. Per il diritto europeo infatti non è mai stato un problema estendere il divieto di discriminazione in base al genere anche all’identità di genere. Ne è prova un caso storico che ha riguardato una lavoratrice inglese transgender che stava effettuando il cambio di genere. In quel caso – del 1996 – la Corte di giustizia ha stabilito come la legge tutelasse anche la sua situazione”.

La norma salvaguardia sia l’accesso al lavoro, sia lo svolgimento del rapporto e l’eventuale interruzione. “Non è necessario ricercare la volontà o l’intento di chi discrimina, anche perché può essere impossibile provarlo. Se c’è un elemento oggettivo di svantaggio, oppure un ambiente molesto o un clima degradante e lesivo della dignità, posso invocare la normativa antidiscriminatoria”.

Rimangono però alcune difficoltà, che riguardano soprattutto l’accesso al lavoro. “Più il processo di selezione è deformalizzato e più è complesso dimostrare che una persona con il curriculum perfetto è stata esclusa per il suo essere trans. Le ricerche (qui quella dell’Istat e qui quella della FRA, ndr) dimostrano che questi fenomeni avvengono ed è una pratica diffusa. E utilizzando i risultati di queste ricerche si può costruire un’azione giudiziale anche nei casi che appaiono più complessi da provare”. C’è poi un fattore più astratto, che tocca consuetudini non scritte e che porta spesso le vittime a subire in silenzio, a non chiedere aiuto, rassegnandosi a una società che le penalizza. “Le tutele esistono ma sono ancora poco praticate. Le persone discriminate hanno sviluppato una forte capacità di resilienza e non si sentono sostenute. Tendono spesso a non farsi avanti, a scoraggiarsi . È per questo che è cruciale l’impegno di sindacati e associazioni, soggetti molto valorizzatidalla normativa proprio nella loro funzione di sostegno alle vittime di discriminazione”.

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