Dal termine greco pólemos (πόλεμος), ovvero guerra, deriva la parola italiana polemica. E mai un’etimologia si ritrova oggi così perfettamente in linea con quanto accade nel nostro Paese, laddove la polemica, di per sé utile ma troppo spesso inutile, è ormai una sorta di sport nazionale in ogni settore informativo e ha raggiunto il suo climax in questi sanguinosi mesi di massacro della popolazione ucraina (e dei militari russi mandati a morire allo sbaraglio). Mi riferisco a buona parte dei talk show televisivi (e non solo e non tutti, per fortuna) dove vige una violenta guerra di parole e di gestualità narcisistiche che spesso finiscono per prevalere, per assenza di profondità di campo delle argomentazioni, sulle ragioni della guerra vera.

“Nessuna guerra ha mai avuto una sola origine: dipende da come le propagande contrapposte riescano o meno a imporre una certa verità”, ha detto giorni fa il professor Luciano Canfora, filologo e grecista, agli studenti del Liceo Fermi di Bari. Il che, se vale oggi, valeva anche nel 429 avanti Cristo, anno in cui è ambientato il recentissimo romanzo storico di Gianfrancesco Turano (Pólemos, Giunti). Turano, inviato de L’Espresso e laureato in letteratura greca, nonché nato a Reggio Calabria (i geni non mentono), sviluppa la vicenda intorno a tre personaggi: Mirrina, coraggiosa adolescente, androgina per scelta (fa credere di essere un uomo e si si fa prendere prigioniera su una trireme di Sparta) decisa a vendicare il padre ucciso dagli spartani; Procle, un Uguale lacedemone (ovvero membro dell’aristocrazia guerriera di Sparta) che raccoglie, e fa prigioniera, la fanciulla su una spiaggia della Laconia, dopo una battaglia sul mare con gli ateniesi e il naufragio della trireme su cui si trovava la ragazzina; e infine Milone da Reggio, di parte ateniese, un ambizioso, presuntuoso attore e commediografo, nonché pederasta, che definisce Socrate “un morto di fame figlio di una levatrice, un cretino nocivo”.

Da qui ha inizio la road movie di Procle e Mirrina (con codazzo di bimbi e ragazzine raccolti per strada) che porterà i due a ritrovarsi, e a incontrare Milone, in una Atene decimata dalla peste (che uccise anche Pericle, secondo alcuni storici il fautore della politica imperialista ateniese). E proprio ad Atene si incroceranno i destini dei tre personaggi. Il finale, ovviamente, non va raccontato.

Il romanzo, estremamente realistico nelle sue descrizioni, anche splatter, è lontano anni luce dalle confortanti, eroiche descrizioni dei miti e delle vicende dell’antica Grecia cui ci hanno abituato i film peplum degli anni Sessanta: “Accadde tutto in un battito di mani”, scrive Turano a proposito di un’esecuzione compiuta dagli ateniesi. “Cinque dei sei ambasciatori furono messi in ginocchio. Un boia li bloccava a terra, uno prendeva la testa del prigioniero e la tirava indietro, il terzo li scannava. Non si erano ancora dissanguati quando furono lanciati nel baratro”. Roba da Isis. Qui c’è sangue, fango, fame, malattie, realtà storica, quella che ci ha descritto Tucidide ne La guerra del Peloponneso.

Le 413 pagine del romanzo non devono terrorizzare il lettore perché la narrazione è appassionante anche dal punto di vista della ‘suspense’, oltre che storicamente documentata e foriera di continui momenti riflessivi sull’oggi. “Una sciarada sanguinaria di un mondo che si autodistrugge”, lo definisce Matteo Sacchi su Il Giornale. E scrive la grecista Eva Cantarella su Il Corriere della Sera che la guerra fra Atene e Sparta “segnerà di fatto la fine della civiltà greca classica” e che le due città sono “diventate paradigmi di modelli politici e culturali opposti” e “riproposte nei secoli e prese come esempi”. Aggiunge Matteo Nucci su L’Espresso (come i sopracitati, recensendo il libro di Turano): “Certo, però, gli esseri umani non fanno tesoro del loro passato. Questo è un dato accertato quanto duro da accettare”. L’essere umano “usa la memoria nelle buone occasioni, nelle giornate dedicate, nei momenti celebrativi”. E poi si scorda di tutto.

Il libro di Turano non è dunque solo un piacevole quanto crudo romanzo storico, ma un’occasione per riflettere sui 59 conflitti attualmente in corso nel mondo. Duemilaquattrocento anni dopo i fatti di Pólemos.

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