Quella frase ha i contorni tetri della sentenza. È la mattina del 9 ottobre 1995 quando uno dei più importanti quotidiani nazionali pubblica un pezzo insolitamente lungo per una squadra che gioca in Serie B. Il titolo è eloquente: “Ancelotti verso l’esonero”. Ma il contenuto è ancora più duro. “Anche Sacchi ingranò male il primo anno a Milano, ma riuscì a resistere e sfondò: al paffuto Carlo (…) forse non andrà altrettanto bene”. È una cronaca ingenerosa che parte però da un dato di fatto. Perché in poco meno di due mesi la Reggiana è riuscita ad andare oltre la Legge di Murphy. Se qualcosa può andar male, lo farà. E se qualcosa non può andar male, lo farà lo stesso. Dopo 7 giornate la classifica è un incubo stampato su carta. Un pareggio, 6 sconfitte, ultimo posto in classifica. Ancelotti ha stabilito una serie di primati al contrario. Ad appena 36 anni. Per qualcuno è un “raccomandato di ferro“. Per altri è un integralista della zona inadatto ai palcoscenici della Serie B. È il punto di non ritorno. I giornali dicono che la squadra è talmente stanca dei metodi dell’allenatore che ha iniziato a giocargli contro. Giurano che nel pomeriggio il patron degli emiliani si affaccerà in sala stampa per annunciare l’esonero del mister. Solo che Dal Cin sceglie di non scegliere. Media, non defenestra. E alla fine non convoca nessuna conferenza stampa. Andrà avanti con il suo tecnico. Senza troppa convinzione.

È in quel pomeriggio che la carriera di Ancelotti prende una piega imprevista. Una parabola crescente che nell’arco di quasi trent’anni lo ha portato a essere tante cose tutte insieme. L’uomo che ha inventato l’albero di Natale, il condottiero che ha regalato la decima al Real Madrid. E ora anche il primo tecnico ad aver vinto il titolo nazionale in ognuno dei cinque tornei più importanti d’Europa. Pochi altri allenatori sono stati in grado di diventare così nazionalpopolari, di generare sterminate simpatie e feroci antipatie lungo tutto l’arco costituzionale del calcio tricolore. Solo che più il suo sopracciglio alzato diventava topos letterario, più i suoi trionfi all’estero venivano usucapiti per trasformarsi nei successi del calcio italiano, più Ancelotti si è ritrovato a subire quello strano trattamento riservato agli uomini di successo. Le sue vittorie sono state celebrate, ma anche soppesate. I detrattori raccontano di una contabilità negativa. Perché con le squadre che ha avuto a disposizione avrebbe potuto, ma soprattutto dovuto, vincere di più. La sua figura ha finito col diventare monodimensionale. Non più allenatore ma gestore di campioni. Qualunque cosa voglia dire. I suoi modi gentili sono stati considerati l’elevamento a sistema di una democristianeria sportiva. Eppure prima di ottenere un consenso generico e generalizzato, Ancelotti è stato guardato a lungo con sospetto. Dalle televisioni, dai giornali, dai tifosi.

La sua genesi come allenatore è improvvisa. Dopo aver ricoperto il ruolo di secondo di Sacchi al Milan e in Nazionale diventa il primo evangelista del Verbo del Messia di Fusignano. Tutto inizia nell’estate del 1995. Ancelotti riceve una chiamata da Reggio Emilia. I programmi sono chiari: niente follie sul mercato e promozione da centrare al primo tentativo. Non serve andare oltre, l’accordo è già trovato. C’è solo un piccolissimo dettaglio. Ancelotti non ha il patentino. Non può essere nominato allenatore. Non può neanche rilasciare interviste ufficiali. Musica per le orecchie di un Paese che si propone di rintracciare l’eccezione giusta per ogni regola. L’escamotage è facile da trovare. Formalmente Ancelotti è il vice di Ciaschini. Solo che nella pratica è Ciaschini a essere il vice di Ancelotti. Una roba da mal di testa che genera un’infinità di critiche. A luglio Azeglio Vicini tuona: “Bisogna fermare i club che offrono contratti da allenatore a chi non ha il patentino di 1° categoria e quei tecnici che fanno da prestanome“.

Il primo atto ufficiale è del 25 agosto. Ancelotti si presenta ai giornalisti e distribuisce il pane che Arrigo spezzò. “In cosa mi differenzio da Sacchi? In niente spero. Essere la sua copia non è diminutivo per me, è un’ambizione. L’ho conosciuto quando avevo 28 anni e pensavo si sapere tutto del calcio, invece mi accorsi di sapere molto poco”. L’inizio di campionato è una passeggiata sul Golgota. E Carlo si trascina dietro la sua croce. Dopo l’ennesima sconfitta il patron Dal Cin entra nello spogliatoio e si mette a urlare. Non ne vuole più sapere di quel maledetto fuorigioco. Vuole vedere il libero staccato al centro della difesa. Ancelotti incassa, annuisce, va per la sua strada. “È un periodo no”, dice. “Passserà”, assicura. E ha ragione. A metà novembre la Reggiana ha vinto cinque partite una dietro l’altra. È terza in classifica, a due punti dalla prima. È un miracolo. O qualcosa che ci si avvicina molto. A fine anno la promozione arriva davvero. L’addio alla Reggiana è zuccheroso. “Siamo orgogliosi di aver visto all’inizio della prestigiosa carriera di Ancelotti”, dice il presidente Loris Fantinel.

Per Ancelotti l’approdo a Parma è un sogno. Fino a quando non si inizia a giocare sul serio. L’idea è modellare la squadra sul 4-3-3 con Crespo centrale e Chiesa e Zola ai suoi lati. Il sardo non è entusiasta. “Sono una seconda punta – dice – spero di continuare così”. Ne esce uno scarabocchio. Zola viene incastonato fra il centrocampo e l’attacco. Anche la difesa ci sono dei problemi. Cannavaro viene schierato come esterno destro della linea a quattro. E critica pubblicamente il suo allenatore. Gli esperimenti finiscono al fischio di inizio della prima giornata. Crespo è infortunato. È il momento ideale per mandare in naftalina il tridente e ritornare al caro, vecchio, 4-4-2. La vittoria per 3-0 sul Napoli è bigiotteria. Perché subito dopo inizia un periodo orribile. Il Parma annaspa. In campionato. In Coppa Italia. In Coppa Uefa. A dicembre è quintultimo in classifica. Nel trofeo nazionale viene eliminato al primo turno dal Pescara. In Europa esce ai trentaduesimi di finale per mano del Vitória Guimarães. Quello che succede nella gara di ritorno contro i portoghesi aspira al sublime. Ancelotti ha l’intuizione perfetta: promuove Buffon a portiere titolare. Quando il tecnico comunica la notizia un giornalista gli fa presente che Nista, l’estremo difensore di riserva, in verità non può giocare in Europa prima del 1997. È un dettaglio che era sfuggito allo staff tecnico. C’è solo una soluzione: attaccarsi al telefono. Luca Bucci sta mangiando un piatto di tagliatelle quando solleva la cornetta. “Ci siamo sbagliati, devi partire anche tu per il Portogallo fai la valigia al volo”. Niente di strano se non fosse per un problema: Bucci è infortunato. La sua presenza è solo scenografica. Come quella del Parma in campo. All’Estadio D. Afonso Henriques finisce 2-0. I gialloblù avevano vinto 2-1 all’andata. E quindi sono eliminati. “Nel calcio ci sta tutto ma questo è troppo – dice Stefano Tanzi – l’amarezza è grande. Noi calci nel sedere non ne abbiamo mai dati, ma chi deve essere stimolato lo sarà”.

A inizio novembre scoppia un altro caso. Zola non si integra nel 4-4-2 di Ancelotti. Così viene venduto al Chelsea. “Per me non c’era più posto – dice il fantasista – Quando ho letto che Ancelotti avrebbe giocato con tre punte ho avuto un presentimento. Quando mai Carletto ha giocato con tre punte? Una semmai, massimo due. Quando mi ha chiesto di stare dietro mi sono impegnato. Ma non è il mio ruolo, non è il mio posto”. Sui giornali parte una nuova crociata. In prima fila c’è Gianni Mura: “Gli allenatori ormai sono più vicini al buon Dio che alla testa di un calciofilo appassionato, malato di quell’esperanto che è la tecnica. Ancelotti è uno dei pupilli di Sacchi, la sua visione del calcio è fissa e immutabile. Per esser così giovane una cosa l’ha capita, e non è far giocare bene una squadra ma rispettare la voce del padrone. Complimenti e auguri”. Le cose non migliorano. A tutti pronunciano la parola esonero. La storia si trasforma in romanzo tre giorni prima di Natale. Sacchi è tornato al Milan e si ritrova ad affrontare il suo discepolo. “È la versione a zona del Conte Ugolino“, scrive Repubblica. Al Parma basta un gol di Stanic. Il parricidio calcistico è un trampolino. I gialloblù si risollevano, finiscono secondi in campionato. Vuol dire Champions League. La coppa con le grandi orecchie è una gioia che esplode come una bolla di sapone. Il Parma viene inserito nel Gruppo A insieme a Borussia Dortmund, Sparta Praga e Galatasaray. Si impantana lì, al secondo posto. Arrivederci e grazie, sarà per un’altra volta. A inizio stagione Tanzi blocca Roberto Baggio. È tutto fatto, ma Ancelotti si mette per traverso. Non c’è bisogno di un idolo quando il totem intorno a cui ballare è il 4-4-2. L’operazione salta. Robi devia di qualche chilometro, si accasa a Bologna, diventa il Gesù dei sobborghi cantato dai Green Day. A fine anno il Parma è sesto. Meglio salutarsi qui. “Ma io non credo che sia stato giusto mandarmi via: ho la coscienza a posto” dice Carlo.

Nel febbraio del 1998 Lippi si dimette in diretta tv. La Juventus chiama Ancelotti, che a Torino viene visto come il male assoluto. Perché ha giocato nella Roma e nel Milan. Ma anche perché l’anno prima aveva detto: “La Juve deve vincere in campo, non con i favori arbitrali”. Anche l’Avvocato non è entusiasta, perché ammette di non riuscire a inquadrarlo. “Brutta storia – commenta Ancelotti – andare ad allenare in una piazza che non mi vuole”. Un mese prima era arrivato un diamante. Si chiama Thierry Henry. Ancelotti se lo ritrova fra le mani e decide di lanciarlo sulla fascia sinistra. Deve fare su e giù per 90’. Le cose vanno così male che la gente si domanda a chi sia venuta l’idea di comprarlo. In Europa il cammino della Juventus si arresta alle semifinali di Champions, contro lo United. In campionato si inabissa fino al sesto posto. Vuol dire disputare lo spareggio per la Uefa con l’Udinese. I bianconeri riescono anche a perderlo. E vengono retrocessi in Intertoto. Le altre due stagioni si concludono nello stesso modo. Con zero trofei vinti. E con due secondi posti alle spalle delle romane. I sogni di gloria naufragano prima sul prato zuppo del Curi di Perugia, quando il gol di Calori regala lo scudetto alla Lazio. Poi a Torino, quando Nakata e Montella salvano i giallorossi. La contestazione dei tifosi è permanente. E presto si trasforma in vilipendio. “Non ha mai vinto niente”, dicono. “Un maiale non può allenare”, arrivano a scrivere gli ultras. I 73 punti in classifica non bastano. Gianni Agnelli telefona ad Ancelotti in una mattina di metà giugno. C’è poco da dire e poco da ascoltare, “abbiamo deciso per il bene di tutti” dice Bettega annunciando alla stampa l’esonero del tecnico. “Fatico a capire questa decisione. Dispiace, ma accetto: la società ha il diritto di fare questo genere di scelte”. È la fine del suo romanzo di formazione. Ora Carlo è pronto per i kolossal. A novembre del 2001 torna a casa, al “suo” Milan. È l’inizio di un racconto epico che trova il suo culmine con la creazione dell’albero di Natale e con la trasformazione di Pirlo in regista. Ma questa è un’altra storia. Una storia che conoscono tutti.

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