C’è un corpicino steso sull’erba, appena abbattuto da due colpi di lupara: è quello di Paolino Riccobono, 13 anni, pastore, ultima vittima della lunghissima faida di Tommaso Natale. Sullo sfondo quattro donne procedono a passi svelti verso quel piccolo cadavere: sono la madre e le zie, vestite di nero perché portano ancora il lutto per i figli e i mariti trucidati dal clan avversario. È il 19 gennaio del 1961 e il fotografo Nicola Scafidi riesce con uno scatto a smentire la più grossa delle bugie: non è vero che la mafia non uccide i bambini. Quella foto farà giustamente il giro del mondo, oggi farebbe fatica a trovare spazio sui giornali. Dove le immagini dei morti ammazzati sono praticamente scomparse. Che fine hanno fatto? Dove sono le foto dei cadaveri crivellati di pallottole, fulminati nelle automobili? E quelli stesi a terra, coperti dai candidi lenzuoli bianchi? Sui quotidiani quelle immagini non ci sono più. Non possono esserci più. E non solo perché si uccide per fortuna di meno rispetto agli anni ’60 e ’70. A far sparire le foto dei morti dai giornali sono le norme, due in particolare: l’articolo 15 della legge sulla stampa e il 528 del codice penale. Non sono leggi nuove: risalgono rispettivamente al 1948 e al 1930, seppur con modifiche successive. La prima vieta le “pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante”, la seconda punisce quelle “oscene”. Ma come si fa a stabilire se una foto è impressionante o oscena? Il codice non lo dice, limitandosi a considerare come “osceni gli atti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore”. E a definire il comune sentimento che regola il pudore sono le “norme etiche percepite e condivise dalla società”. Che però cambiano nel tempo: ciò che cinquanta o quaranta anni fa non era osceno, e dunque pubblicabile, oggi è bandito da quotidiani, siti, telegiornali.

Il senso del pudore si è “evoluto”, almeno secondo alcune sentenze della Cassazione dei primi anni 2000. A parte certi determinati casi – come quello di Stefano Cucchi, con la famiglia che decise di rendere pubbliche le foto del cadavere per indagare sulla sua morte – oggi non troveremmo più le foto del piccolo Paolino Riccobono, delle guerre di mafia in Sicilia, dell’escalation della mala a Milano, degli omicidi eccellenti. “Un tempo avere la foto del morto era più importante dell’articolo”, dice Vincenzo Vasile, per una vita inviato dell’Unità dalla Sicilia e poi direttore del giornale L’Ora. Storico quotidiano della sera, vicino al Partito comunista, già negli anni ’50 L’Ora sdogana le foto del morto in prima pagina. Una scelta presto rilanciata da altri giornali del pomeriggio (Paese Sera a Roma, La Notte a Milano) e dovuta a una duplice motivazione. “Da una parte dare risalto ai fatti di nera voleva dire sottolineare come la situazione dell’ordine pubblico fosse tutt’altro che sotto controllo, come raccontavano gli articoli paludati dei giornali un tempo definiti borghesi. Quindi la cronaca era anche uno strumento di lotta politica”, spiega sempre Vasile. “Dall’altra – continua – fu un escamotage che oggi definiremmo di marketing: i giornali del mattino non riuscivano a dare in tempo le notizie degli omicidi, quindi quelli della sera potevano dare ai lettori cronache più fresche”.

E così che l’Ora diventa il primo giornale a narrare in un certo modo i fatti di sangue, che in Sicilia erano soprattutto fatti di mafia. “L’Ora: morti e feriti”, urlavano gli strilloni mettendo in mostra le prime pagine che, dalle mattanze dei mafiosi, iniziano presto a riempirsi di cadaveri dei “buoni”: da Carlo Alberto Dalla Chiesa a Pio La Torre fino a Piersanti Mattarella. L’omicidio del presidente della Regione Siciliana, il giorno dell’Epifania del 1980, è probabilmente la prima immagine pubblica del futuro capo dello Stato. C’è una foto, ormai celebre, che immortala Sergio Mattarella mentre prova a tirare fuori dall’auto il corpo del fratello in fin di vita. Quello scatto porta la firma di Letizia Battaglia, fuoriclasse del fotogiornalismo, che ha documentato 40 anni di guerra civile siciliana. “La storia di quella foto? Una semplice casualità”, racconta a Fq Millennium. In che senso casualità? “Mi trovavo a passare di lì per caso. Sembrava si trattasse di un incidente e noi non fotografavamo gli incidenti, ma decisi comunque di scendere dalla macchina e cominciai a scattare. Solo dopo mi dissero che quello era il presidente della Regione, che gli avevano sparato, che in auto c’erano la moglie e il fratello Sergio”. Quella foto oggi potrebbe essere pubblicata? “No”, sostiene Franco Abruzzo, storico presidente dell’ordine dei giornalisti di Milano e leader di una battaglia cominciata nel 2004, quando denunciò – tra le polemiche – la pubblicazione da parte di alcuni giornali delle foto della decapitazione subita dall’americano Nicolas Berg da parte di un gruppo di estremisti iracheni.“Non esiste il diritto di pubblicare quello che si vuole”, dice, citando a memoria tutta una serie di sentenze. La questione è infatti dibattuta da tempo a colpi di precedenti e interpretazioni giurisprudenziali. Per esempio: lo stesso articolo 15 della legge sulla stampa, quello che vieta la pubblicazione a contenuto “impressionante e raccapricciante” non entra forse in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, sulla libertà d’espressione? “No – risponde Abruzzo – perché è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale. In sostanza il divieto di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante non è incostituzionale perché è diretto a tutelare la dignità umana”. Ma come si fa a decidere se un contenuto è raccapricciante o impressionante? “Ci aiuta la giurisprudenza – continua ancora l’ex presidente dell’ordine – I giudici, per esempio, hanno ritenuto che fossero raccapriccianti e impressionanti le foto del cadavere di Aldo Moro, quelle del corpo di Alfredino, il bambino finito nel pozzo di Vermicino, quelle delle piccole vittime della pedofilia”.

Vasile, però, fa notare come con questo metro non sarebbero più pubblicabili la foto del cadavere di Mussolini a piazzale Loreto, all’epoca uno scoop del periodico Crimen. “Non è un caso che quelle foto siano state pubblicate nel primissimo dopoguerra, e dunque a fascismo finito: era il regime che vietava di raccontare la cronaca nera, perché bisognava infondere nella popolazione la convinzione che tutto andasse bene. Nessuno si suicidava, pochissimi uccidevano: la realtà, però, era un’altra”. Per Letizia Battaglia, invece, non è una questione di norme e codici: “I fotografi e i giornalisti hanno il dovere di mostrare anche le atrocità del mondo: non è colpa loro se il mondo è atroce. È scomparsa la denuncia della violenza, della depravazione, della crudeltà. Questa è semplicemente censura e io la trovo insopportabile”. La fotoreporter ricorda poi il caso Alan Kurdi, l’iconica foto del 2016 che immortala il piccolo corpo di un bambino riverso su una spiaggia turca: “Hanno scatenato un putiferio, come se la colpa fosse della fotografa e non invece di chi quei bambini li fa morire affogati. E questa vicenda mi ha fatto tornare alla mente un mio vecchio rimorso”. Quale? “Anni fa riuscii a fotografare il cadavere di un bambino, appena ucciso dai mafiosi perché aveva visto gli assassini di suo padre. Non so perché, ma quella foto decisi di non pubblicarla. Avevo una sorta di senso di colpa, ma adesso ho deciso di rendere pubblico quello scatto, di metterlo in mostra. La gente deve vedere cosa è stata la ferocia di Cosa nostra. Per combattere il male bisogna mostrare la sua malvagità”.

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