di Carmine Di Filippo

Una riforma fiscale è buona se contempla tutto; se la si fa a pezzetti tra Irpef, bollo, Imu e tasse varie di successione e registro non credo che ne esca qualcosa di congruo, fiscalmente equo e giusto. Iniquità ci sono, elenco quelle che mi vengono per non fare solo teoria:

  • Diversa esenzione tra redditi da lavoro dipendente, autonomo e pensione; e nessuna esenzione per altri redditi;
  • Diversa detrazione tra reddito da lavoro dipendente e da pensione;
  • Detrazioni non ammesse per incapienza;
  • Diversa tassazione degli interessi tra titoli di stato, bancari o fondi pensione;
  • Diversa tassazione tra bollo sul capitale e Imu sugli immobili;
  • Tassa sul reddito da lavoro con aliquota crescente, a scaglioni, e sul reddito da capitale o da immobili con aliquota costante.

Non bastavano: è stata aggiunta anche la diversa tassazione sul reddito da lavoro autonomo rispetto a quello da lavoro dipendente, con una “tassa piatta” che fa differenza anche notevole sulle relative tasse. Poi ci sono agevolazioni, come le contorsioni degli 80/100 € o quella sui fondi pensione integrativa che consente a chi ha la possibilità di accantonare fino a 5.164 € un vantaggio fiscale che non ha chi non ce la fa ad accantonare. E le esenzioni come l’Imu sulla casa in cui si abita anche per chi ha un alto reddito, sulla base di un “principio di sacralità della propria abitazione” sconosciuto a chi la casa non ce l’ha, e nemmeno l’alto reddito.

A prescindere dalla provenienza, l’imposizione fiscale dovrebbe essere uguale a parità di reddito se si vuole correggere il nostro sistema che è “iniquo e ingiusto”. Non vedo perché chi percepisce una determinata somma, che sia da lavoro, rendita finanziaria o immobiliare, debba contribuire con importo diverso all’erario. Non vedo nemmeno perché non si possano applicare gli scaglioni anche ai redditi da capitale o da locazione, come per redditi da lavoro. Non solo per l’Irpef ma anche per l’Imu: potrebbe essere a scaglioni anche questa. Anche l’Ires, perché no?

Per la verità non vedo perché non si possano superare gli scaglioni e far ricorso a funzioni variabili; anche se forse è chiedere troppa competenza. Sebbene con gli strumenti informatici di oggi non sarebbe tanto difficile. A me piace una riforma che tenga conto dell’insieme dei redditi e li consideri alla pari. Una riforma che consideri importo tassabile il reddito spendibile, cioè quello con cui si vive anno per anno, a prescindere dalla provenienza. Ma aggiungerei pure un importo tassabile pari al reddito medio degli ultimi tre anni, con gli opportuni correttivi, visto che si vive anche con i risparmi se in un anno non si ha reddito; e pure questo forse è chiedere troppo.

A me piacerebbe pure una esenzione uguale per tutti e un reddito negativo fino al raggiungimento della soglia di povertà assoluta, con buona pace del reddito di cittadinanza. Un po’ di perequazione, dopo tanta sperequazione da Reagan in poi: si può. Un po’ di memoria non guasterebbe: tutte le chiacchiere fatte sulla chiusura degli enti inutili, divoratori di miliardi, qualcuno dovrebbe ricordarle quando parla di mancanza di risorse.

Draghi nel discorso di insediamento aveva citato l’indice di Gini che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito: qualcosa s’è fatto col reddito di cittadinanza ma con la miniriforma Irpef no, anzi. Spero nella prossima. Indice poco chiaro. E’ più chiaro un R10=13: dice che il 10% dei contribuenti più ricchi ha un reddito medio 13 volte il reddito medio del 10% più povero della popolazione. Esclusi i senza reddito, ovviamente.

Il prof. Caffè diceva: “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili.” Spero che lo si ricordi e si metta in atto il suo insegnamento. Basta sentir blaterare politici a difesa dell’intangibilità del “patrimonio”. E altri pronti a difenderlo, anche se non ce l’hanno.

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