La Spagna volta pagina sul Covid e fa il primo passo per trattarlo come un’influenza. Da inizio settimana, il paese iberico ha allentato le restrizioni dopo due anni segnati da periodi di continue aperture e chiusure. Per chi presenta sintomi lievi non sono più obbligatori i tamponi e nemmeno le quarantene, ma nei 10 giorni successivi dovrà usare prudenza limitando le relazioni sociali e utilizzando sempre la mascherina, obbligatoria negli spazi chiusi. I tamponi e l’isolamento continuano invece a essere indicati per le persone vulnerabili, per chi presenta patologie, per gli over 60, per gli immunodepressi, per le donne incinte e per i lavoratori sanitari e sociosanitari.

Oltre all’eliminazione delle quarantene, la Spagna ha anche smesso di contare i singoli casi: da ora in poi, si fa riferimento solo a quelli gravi e ai contagi nei contesti vulnerabili. La pressione negli ospedali sarà un altro indicatore importante per osservare l’andamento del virus. Il paese entra ufficialmente in un periodo di transizione che porterà, nei primi mesi del 2023, alla messa in atto di un sistema di sorveglianza sentinella, come quello che viene utilizzato per l’influenza. Concretamente, una rete di medici di base e ospedalieri che seguono un campione di pazienti statisticamente rappresentativo della popolazione riporteranno i casi. I dati raccolti verranno estrapolati per calcolare l’incidenza totale e i casi gravi.

La decisione di adottare questa nuova strategia arriva mentre la Spagna sta uscendo dalla sesta ondata, che ha visto in tutta Europa un’esplosione di casi, per lo più lievi o asintomatici grazie alle campagne di vaccinazione: in Spagna il 92% della popolazione sopra i 12 anni è vaccinata. L’impossibilità di accedere ai test per le lunghe attese che hanno messo sotto pressione la rete dei medici di base, così come i risultati degli autotest che sfuggivano alle statistiche, hanno evidenziato che i dati forniti erano incompleti e rappresentavano solo parzialmente la situazione epidemiologica.

Con queste nuove regole, che sono entrate in vigore lunedì 28 marzo, il governo ha posto fine alla “fase acuta della pandemia”, ma ha spiegato che queste misure potranno cambiare nel caso in cui si noti un peggioramento della situazione epidemiologica. Il criterio per valutarlo è appunto la pressione negli ospedali: se la percentuale di malati di Covid è inferiore a un 5% in reparto e a un 10% nelle terapie intensive, il rischio è basso e si manterranno le misure. In caso contrario, si valuterà un passo indietro.

Stando ai dati del Ministero della Salute dello scorso 29 marzo –gli ultimi che si pubblicheranno con il calcolo tradizionale dei contagi– il tasso di incidenza cumulativa a 14 giorni è di 466 casi per 100mila abitanti, un dato che rientra nella fascia di rischio alto di trasmissione. Tuttavia, la pressione negli ospedali è bassa: il 4% dei letti disponibili sono occupati da pazienti Covid, una percentuale che arriva al 5,4% nelle terapie intensive.

L’ultimo passo che sta valutando il ministero è l’eliminazione delle mascherine nei luoghi al chiuso. La ministra della salute, Carolina Darias, ha dichiarato questo martedì che questa misura verrà adottata “quando gli esperti lo proporranno. Avanziamo passo a passo”, senza specificare se si tratterà di giorni o di settimane. Dal primo aprile, in Italia è terminato lo stato di emergenza proclamato dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte il 31 gennaio 2020. Rimane però l’obbligo della mascherina al chiuso, almeno fino al 30 di aprile, così come le quarantene per i positivi, che potranno uscire dall’isolamento dopo 7 o 10 giorni con un tampone con esito negativo.

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