Un filo rosso attraversa talvolta le nostre vite, e idealmente le cuce, congiungendo passato e presente. Avvenimenti piccoli, pressoché dimenticati, ritornano anni e anni dopo alla ribalta del nostro pensiero, s’incuneano nella mente, o si materializzano in fatti concreti: a seconda del momento, e di talune situazioni storiche che ci coinvolgono nostro malgrado, assumono una forza che non avremmo loro mai attribuito. Qualcosa del genere è capitato ad Ai Weiwei (il cognome, in cinese, precede il nome), artista poliedrico – designer, architetto, pittore, fotografo, scrittore – che firma la regìa della Turandot di Giacomo Puccini per il Teatro dell’Opera di Roma (debutto il 22 marzo, ripresa di RAI 5 il 24 marzo, alle 21).

Ai Weiwei è famoso come attivista politico, perseguitato dal regime cinese, imprigionato nel 2011 e rilasciato dopo 81 giorni grazie anche alle pressioni esercitate da molti Paesi: il padre era stato a sua volta condannato dal regime di Mao. In un video su YouTube l’artista racconta che da ragazzo, per tirare su quattro soldi e non fare la fame a New York, aveva lavorato al Metropolitan: faceva da comparsa nella Turandot, regìa di Zeffirelli, impersonando l’assistente del boia. Non avrebbe mai previsto che, trentacinque anni dopo, sarebbe stato regista della stessa opera: “un miracolo che chiude un cerchio”, dice oggi. Per l’appunto, un filo rosso che connette il passato al presente.

La messinscena della sua Turandot era programmata per il 2020, ma la pandemia l’ha bloccata. Ora il progetto è stato ripreso e realizzato, ma frattanto è scoppiata la guerra Russia-Ucraina. Drammi che traboccano di lutti incorniciano dunque questo impegno di Ai Weiwei. I due anni d’attesa, dal ’20 al ’22, hanno rallentato l’allestimento dell’opera, ma, dice il regista, non sono stati sprecati, anzi sono stati preziosi per maturare e perfezionare le idee, integrarne altre, aggiungere nuove immagini e nuovi linguaggi. Oggi egli sente profondamente che la sua Turandot, letta sì in chiave attualizzante, si rifà però ai classici, all’idea tradizionale dell’amore e dell’odio, e “intende sottolineare lo sforzo di chi tenta di realizzare qualcosa di impossibile”. È “un’interpretazione dell’amore puro, che porta al sacrificio”, radicata al tempo stesso “nell’immaginazione e nella realtà”. Costumi, scenografie e proiezioni video sono strumenti per realizzare “un’esperienza operistica totale, al tempo stesso musicale, scultorea, visiva”.

Ai ha inteso restituire la visione che, nel primo Novecento, l’Occidente aveva dell’estremo Oriente, e nel contempo ha voluto tenere l’occhio ben aperto sulle tragedie odierne: il che ci induce a interrogarci sui concetti di “vita, amore, pace, democrazia, odio, vendetta”, in un momento in cui infuriano le battaglie nel centro dell’Europa, e taluni beni culturali importanti come i teatri di Mariupol, Leopoli, Odessa sono in pericolo: devastato il primo, nel quale tanti cittadini si erano rifugiati; bombardato il secondo; a rischio il terzo, protetto dalle barricate. La scenografia rimanderà perciò a una grande mappa della terra e alle rovine di Roma, “simbolo del mondo contemporaneo, che con la guerra distrugge il proprio passato, perdendolo per sempre”.

L’opera sarà data senza il finale composto da Franco Alfano: Puccini l’aveva lasciata incompiuta, si era fermato alla morte di Liù, la giovane schiava suicida per amore e disperazione. Quell’amore che, dice il regista, “può essere esaltante, ma anche pericoloso e distruttivo”: così come è per Turandot, la principessa algida e crudele, che ammalia e annienta. La contemporaneità incombente è rappresentata dal coro, aggiunge il regista: al popolo, che esso impersona, si mescolano i rifugiati tartari, privi della Patria, ma soggiogati dal fascino maligno della principessa di ghiaccio.

Sul podio ci sarà la direttrice ucraina Oksana Lyniv, che di Ai Weiwei condivide la visione artistica. Ucraina è anche la protagonista, il soprano Oksana Dyka. Quasi che tragedie passate e presenti, fiabesche e reali, trovino in quest’opera, a Roma, una stupefacente congiunzione simbolica. Michael Fabiano sarà il principe Calaf, Francesca Dotto la remissiva Liù. Roberto Gabbiani dirigerà il coro dell’Opera di Roma.

Ai Weiwei sottolinea che nei tempi di tragedia gli artisti devono far sentire la propria voce, e che l’opera “può essere un veicolo per difendere il valore della pace”. Noi concordiamo con lui. La musica, l’arte, la cultura in genere e lo sport sono strumenti poderosi per propagare il messaggio del rispetto reciproco fra le nazioni. Due giorni fa, la speranza è venuta dalla scienza: i tre cosmonauti russi a bordo della Sojuz – Oleg Artem’ev, Denis Matveev, Sergej Korsakov – sono stati accolti, al loro sbarco, dai sette membri dell’equipaggio della International Space Station, formato da russi, americani e un tedesco, che li hanno abbracciati con calore. Curiosamente, i tre indossavano tute giallo intenso con inserti blu: i colori dell’Ucraina.

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